Nell’agosto 1945 Alcide De Gasperi tenne un discorso al Consiglio nazionale della Dc in cui ricordò che, a soli quattro mesi dalla fine della guerra di Liberazione, gli italiani si mostravano «stanchi dei partiti», in preda a una «atarassia dilagante». Negli stessi mesi un protagonista della lotta partigiana come Emilio Lussu notava amareggiato che il «”partito del malcontento” in Italia era sempre esistito sin dai tempi “di Pasquino e Marforio”», e «si sarebbe potuto chiamare movimento o partito “piove, governo ladro!”».
Da allora sono trascorsi oltre sessant’anni e oggi molti guardano a quel passato ormai lontano con un sentimento di nostalgia troppo spesso acritico che induce a contrapporre meccanicamente l’età dell’oro della partecipazione e della rappresentanza all’età bronzea dei tempi attuali, caratterizzati dalla disaffezione politica e dalla perdita di autorevolezza dei partiti. Per sfuggire i rischi insiti in ogni processo di idealizzazione, l’altra faccia della rimozione, è utile leggere le memorie dei protagonisti di quella stagione che hanno il merito di restituire le difficoltà di un percorso compiuto e le sfide affrontate per assorbire la mala pianta del qualunquismo e dell’antipolitica. Due costanti antiche e profonde della storia nazionale, alimentate dal regime fascista e incrostatesi nel corso della crisi degli anni Settanta, che si immaginano sempre nuove e inarrestabili quando è la politica stessa a scegliere di cavalcarle per intima debolezza o esibita furbizia.
A questo proposito, il nuovo libro del presidente emerito della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia fa perfettamente al caso nostro. Il volume, risultato di un colloquio appassionato con il vicedirettore del Sole 24 Ore, Alberto Orioli, non è una tradizionale intervista biografica, ma un viaggio attraverso i simboli, le sfide, le speranze, le delusioni, le malinconie, i bilanci, i luoghi del cuore dell’Italia; un dono di riflessione e di sapienza che Ciampi offre ai suoi lettori in occasione dell’anniversario dell’unità nazionale, alla vigilia dei suoi novant’anni. Ma qual è l’idea di Italia che promana da queste pagine? È l’Italia del Risorgimento e della Resistenza, quella della ricostruzione e dell’aggancio all’euro, uno straordinario paese crocevia di culture, di popoli e di lingue, capace di raggiungere l’unità politica grazie alla sfida di un manipolo di sognatori che decisero di farsi patrioti, rischiando la prigione, l’esilio e la vita.
E poi, proprio come fece Ciampi durante la lotta di liberazione, scelsero di difendere, dopo l’8 settembre 1943, l’onore della nazione ferita e tagliata in due: non fu dunque quella data la «morte della patria», ma «il compleanno» della nuova Italia. Lo spirito di Ciampi è imbevuto soprattutto della cultura repubblicana di Mazzini e della sua idea volontaria di patria che «non è un aggregato, è un’associazione», ma il protagonista che più ammira sul piano storico è Cavour «l’unico uomo davvero europeo del Risorgimento», non astratto riformatore, ma in grado di intuire «il limite e le condizioni» dell’agire politico come nessun altro.
Ripercorrere la storia d’Italia attraverso lo sguardo di Ciampi significa rivivere anche la sua parabola esistenziale dall’inconfondibile sapore repubblicano. Anzitutto per il movimento ascensionale che l’ha accompagnata, fondato sulla virtù dell’uomo, intesa, in senso machiavellico, come il merito di sapere cogliere le occasioni offerte dalla fortuna. Egli proviene da una famiglia piccolo-borghese di una città di provincia come Livorno, il padre era proprietario di un negozio di occhiali, ma la vita lo porterà ai vertici dello Stato secondo un itinerario che farebbe impallidire il mitologico sogno americano: l’educazione dai gesuiti, gli studi classici alla Normale di Pisa, la doppia laurea, il servizio militare durante la guerra, la Resistenza, due anni di insegnamento, l’ingresso in Banca d’Italia, la nomina a governatore nel 1979 e poi, a 73 anni, la scelta dell’impegno politico come civil servant, nei giorni difficili di Tangentopoli. Questo percorso è stato animato da una forza di volontà fuori dal comune e da un’alta considerazione per lo studio inteso «come pane dell’anima», strumento di crescita e di riscatto. Eppure il tratto distintivo di Ciampi è quello di mantenere sempre vivo un profilo da outsider, non disgiunto da un sentimento di costante inadeguatezza, si direbbe una forma di sprezzatura, quell’attitudine umana cara a Baldesar Castiglione «che nasconda l’arte, o dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia». Si tratta di una storia certo eccezionale per i traguardi raggiunti, ma che proprio per questa ragione resta comune, rappresentativa di tanti italiani che, al di là delle caricature disfattiste e delle posture autodenigratorie, fanno ogni giorno e bene il loro dovere.
Il libro è ricco di aneddoti relativi al Ciampi privato che lo colgono laddove meno lo si aspetterebbe, come, ad esempio, nello studio del pittore Renato Guttuso, «amico dolcissimo e geniale», al quale era solito rendere visita nelle pause di lavoro. Il governatore in abito blu, l’artista «al tavolo, sigaretta alla mano, l’immancabile bottiglia di whisky a portata di sorso», «lui ateo e comunista», «io laico azionista (mai comunista), ma fermo, pur se discreto, cattolico praticante». Non meno interessanti sono i ritratti di capitani di industria e della finanza come Enrico Cuccia («l’unico ad avere una visione strategica di lungo periodo»), Leopoldo Pirelli («un uomo eccezionale per cultura e senso etico», un «industriale anomalo», «il miglior imprenditore italiano») e Gianni Agnelli («con un grande senso delle istituzioni» e una «freddezza innata»). Così anche il racconto delle proprie passioni etico-politiche lungo la tradizione civile e culturale dell’azionismo italiano: il maestro Guido Calogero, di cui portò in salvo nel 1944 attraverso i monti degli Abruzzi il manoscritto Catechismo liberalsocialista del Partito d’Azione, Ovidio Capitini, Pietro Calamandrei e, più tardi, Norberto Bobbio.
Il sentimento per le radici patrie si trasfigura in quello per l’Europa che viene: perché Ciampi sostiene da sempre che non «c’è contraddizione alcuna fra amore della propria città e regione, amore di Patria, amore d’Europa. Io amo, insieme, la mia Livorno, la Toscana, l’Italia, l’Europa». Concetti chiari che lasciano trasparire un unico grande assillo, di là dalle divisioni politiche contingenti: quello di battere le spinte separatiste che vogliono disgregare l’unità nazionale perché nella sua idea di patria ci sono «le radici dell’Europa unita e quelle del federalismo solidale, non secessionista», secondo l’insegnamento di Cattaneo. Dentro questo orizzonte di valori si iscrive la battaglia politica di Ciampi per la moneta unica europea: un traguardo raggiunto dall’Italia, vincendo la diffidenza e lo scetticismo dei principali paesi del continente e l’opposizione di forze interne come la Lega, grazie a uno straordinario gioco di squadra tra uomini, partiti e istituzioni che ebbe le sue premesse nella «concertazione» del 1993 varata da Ciampi nel ricordo di Ezio Tarantelli. Per gli uomini della sua generazione l’euro è stato un simbolo di unità scritto sul sangue delle guerre e dei totalitarismi del Novecento europeo: un obiettivo impensabile, eppure conseguito, dopo secoli di conflitti in cui i giovani del continente si sono uccisi fra loro senza pietà. Il momento simbolo di questo passaggio storico è stato quando Helmut Kohl, come Ciampi rivela per la prima volta, prese la decisione repentina di equiparare il cambio marco/dollaro tra l’est e l’ovest della Germania per non umiliare l’ex Ddr: «Il gesto politicamente più rilevante della fine del secolo scorso».
Non è il paese che sognavo recita il titolo del libro con una punta di inevitabile malinconia, che però ha il merito di indicare ai suoi lettori le sfide che si hanno davanti. Fra tutte, quella di riqualificare la politica e di difendere l’unità nazionale nella democrazia, due traguardi più vicini se si guarda all’esempio di Ciampi, un italiano per bene, un italiano d’Europa.
Il Sole 24 Ore 24.10.10