Se si mettono insieme diagnosi e proposte formulate in tv dall’ad Sergio Marchionne si è forzati a concludere che il grosso della produzione di Fiat auto è ormai destinato a svilupparsi all’estero. Non si vede infatti come sia possibile raccordare le prime con le seconde.
Dal lato delle diagnosi, l´ad forse esagera quando afferma che l´Italia è al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro, ma ha ragione nel dire che negli ultimi 10 anni l´Italia non ha saputo reggere il passo con gli altri paesi – aggiungendo subito che non è colpa dei lavoratori. Il problema è che da parte sua neanche la Fiat ha saputo reggere il passo con gli altri costruttori europei. Una parte delle difficoltà del gruppo proviene certo dalla situazione del paese. Però di suo, nel decennio, Fiat ci ha messo sia la difficoltà a produrre e vendere su larga scala modelli di fascia medio-alta, quelli su cui si guadagna sul serio (anche quando ne aveva di eccellenti, come accadde con l´Alfa 156), sia una organizzazione complessiva della produzione, e con essa della filiera della fornitura, che ha ridotto a livelli troppo bassi l´utilizzazione degli impianti nazionali. Si parla del 30-40 per cento, mentre gli stabilimenti francesi e tedeschi fan segnare tassi di utilizzazione all´incirca doppi.
Se questi sono i problemi cruciali di Fiat Auto, è arduo capire come il famoso piano Fabbrica Italia riesca a risolverli. Forse riducendo le pause da due di 20 minuti a tre di 10 minuti, come a Pomigliano e a Melfi? Oppure introducendo la nuova metrica del lavoro contenuta nel documento di aprile (19 pagine su 36!) che sotto l´etichetta dell´ergonomia intensifica in ogni minuto secondo la prestazione fisica e mentale dell´operaio? Allo scopo di far salire l´utilizzazione degli impianti la soluzione starebbe semmai nella concentrazione della produzione in due o tre stabilimenti, e nel completo ridisegno della filiera della componentistica, in modo da ridurre drasticamente i chilometri che ogni pezzo percorre prima di arrivare dove viene montato. Può anche darsi che la soluzione che Fiat ha in mente sia appunto questa. Ma se tale fosse il disegno, sarebbe preferibile dirlo, piuttosto che girare attorno alla questione insistendo sull´anarchia degli stabilimenti italiani che impedisce di produrre, per addetto, quanto in Polonia o in Argentina.
L´ad Marchionne ha anche detto – così riportano le cronache – che se le anomalie della gestione degli stabilimenti italiani cessassero, sarebbe disposto a portare il salario dei dipendenti a livello dei nostri paesi vicini. Questi sono la Francia, la Svizzera e l´Austria. Poco più in là c´è la Germania. Ora, nel 2008, il salario annuo lordo dei dipendenti dell´industria e dei servizi, esclusa pubblica amministrazione, istruzione, sistema sanitario e simili, era – a parità di potere d´acquisto – di circa 23.000 euro in Italia, 30.000 in Francia, 35-36.000 in Svizzera e Austria, 42.000 in Germania. Portare i nostri salari a livello dei vicini significherebbe dunque aumentarli tra il 30 e l´80 per cento.
Roba da correre subito, se uno ci crede, a sottoscrivere il piano Fabbrica Italia. Se non fosse che quel piano dovrebbe prima spiegare come si raddoppia o magari si triplica l´utilizzazione degli stabilimenti Fiat in Italia; come si articola la produzione di quei due terzi di auto che sono fabbricati al di fuori di essi; e come si pensa di affrontare nei prossimi anni un mercato europeo dove i costruttori francesi e tedeschi propongono al momento 20-22 modelli di auto ciascuno, grosso modo il doppio di Fiat, ed i consumatori probabilmente non aspettano il 2014 se hanno intenzione e mezzi per cambiare la macchina. In mancanza di questo corredo esplicativo, lo scenario cui dobbiamo guardare con rammarico e preoccupazione è una Fiat, unico tra i grandi costruttori europei, che in sostanza si accinge a fare del suo paese uno dei tanti in cui de-localizza secondo convenienza le sue produzioni.
La Repubblica 25.10.10
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“Marchionne sta meglio senza l’Italia. Epifani: basta scuse”, di Luigina Venturelli
Sindacalisti, cronisti economici ed analisti finanziari se l’erano già sentito dire. Quel «se potesse tagliare l’Italia la Fiat farebbe meglio » non è un pensiero nuovo per Sergio Marchionne, che con parole più o meno dolci, a seconda dell’occasione, l’ha condiviso con i suoi interlocutori. Sfida da affrontare in sede ufficiale, quando deve illustrare la grandezza e il coraggio dei progetti aziendali. Oppure rischio da ventilare in sede di trattativa sindacale, quando vuole ottenere concessioni in tema di organizzazione del lavoro. Il segretario Cgil Guglielmo Epifani conosce ormai la battuta e ritrova il noto «atteggiamento di sufficienza, come se la Fiat in Italia ci stesse a forza».
LA MINACCIA DELL’ABBANDONO Ma qualche volta il contesto può fare la differenza. E lo studio televisivo di Che tempo che fa, per un manager troppo impegnato e riservato per frequentare il piccolo schermo, costituisce un palcoscenico d’eccezione: l’amministratore delegato del Lingotto parla della sua visione del mondo e della fabbrica davanti alle telecamere di Rai3. Vuole guadagnarsi il sostegno dell’opinione pubblica italiana. Ne avrà bisogno per vincere tutte le battaglie che ha aperto nei mesi scorsi e che conta di chiudere entro la fine dell’anno. Infatti le domande di Fabio Fazio che esulano dal tema, sulle sue «diciotto ore di lavoro al giorno» o sull’«importanza della cultura», trovano poco terreno fertile. Ricordando i conti appena presentati dalla Fiat e la revisione al rialzo degli obiettivi 2010, Marchionne sottolinea che «nemmeno un euro dei 2 miliardi di utile operativo del gruppo è stato fatto in Italia» e che «non si può gestire un’attività in perdita per sempre». La radice del problema è nota, la solita «competitività »,come accertano le analisi che vedono il Paese al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48esimo per competitività del sistema industriale: «Non è una buona pagella, il sistema italiano ha perso competitività anno per anno», infatti «non c’è nessuno che viene dall’estero ad investire un euro». Tensione creata. L’attenzione del pubblico si mescola al timore per quel che l’amministratore delegato più ammirato e più contestato d’Italia potrà dire dopo. Quindi è il momento di ridare speranza, di tornare sugli investimenti programmati per 20 miliardi di euro. A cominciare da Pomigliano dove, considerando l’indotto, lavorano 20mila persone: «Se la Fiat dovesse smettere di fare auto in Campania,avremmo un problema sociale immenso, specialmente in una zona dove la camorra è molto attiva». Per seguire con Melfi, dove le pause giornaliere sono state tagliate da 40 a 30 minuti: «Quel sistema già esiste a Mirafiori, non è nulla di eccezionale, e quei dieci minuti sono stati pagati». Fino a sfatare il mito dell’azienda sovvenzionata con fondi pubblici: «Tra il 2008 e il 2009 la Fiat è stata l’unica azienda europea che non ha bussato alle casse dello Stato. Gli incentivi sono soldi che vanno ai consumatori, aiutano parzialmente anche me, ma in Italia sette macchine comprate su dieci sono straniere». Ma il meglio deve ancora arrivare. Marchionne lo sfodera quando il conduttore gli ricorda dello stipendio da 1.200 euro mensili diun lavoratore metalmeccanico italiano, ben più misero della busta paga degli operai d’Oltralpe: «La proposta che abbiamo fatto è per dare alla rete industriale di Fiat la capacità di competere con i Paesi vicini a noi, in cambio mi impegno ad adeguare anche il salario dei dipendenti a quei livelli. Ma per farlo, ci vuole un progetto condiviso». Ovvero, «il salario cambierà, se cambierà il sistema di produzione in Italia». Il Marchionne-pensiero è chiaro. La conclusione da trarne pure: «È possibile creare una realtà diversa. L’Italia ha grandi potenzialità, siamo noi che ci mettiamo gli ostacoli e ci creiamo i problemi». Con tanta carne al fuoco, non c’è proprio posto per la politica:«Ma che scherziamo? Io faccio il metalmeccanico».
LA REAZIONE DI EPIFANI Ma il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, può considerarsi immune alla fascinazione della comunicazione televisiva. Soprattutto a quella dell’amministratore delegato del Lingotto: «Come mai la Ferrari quest’anno ha fatto profitti record?» chiede provocatoriamente. «Il problema forse è quello che si produce e che si vuole produrre, non il modo in cui si lavora in Italia. Altrimenti non si spiega perché l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa». Di più: «I problemi sembrano esserci solo con la Fiat, visto che si fanno molti ottimi accordi, l’ultimo quello in Unicredit». Insomma, «la Fiat ha un atteggiamento di sufficienza, come se in Italia ci stesse a forza».
L’Unità 25.10.10
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“Parla come se volesse andar via scaricando le colpe sugli operai”, di Roberto Mania
Questa è una prova di forza. E Marchionne è un grandissimo negoziatore Come si può pensare che dagli stabilimenti italiani provengano gli utili quando sono fermi?
«La verità è che Marchionne vorrebbe andarsene dall´Italia. D´altra parte è lui stesso che continua a dirlo. Non a caso sostiene di non avere più debiti con il nostro paese. E´ come se si sentisse obbligato a stare qui da noi, mentre il gruppo è sempre più americano, forte in Brasile e negli Stati Uniti».
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ha appena visto la «prima» di Sergio Marchionne in televisione. E conferma, a caldo, che non gli piace più il manager italo-canadese che per un po´ agli occhi della sinistra era apparso come l´incarnazione di una nuova borghesia illuminata. Storia passata, archiviata. Oggi, agli occhi della Cgil, che insieme alla Fiom poco più di una settimana fa ha portato in piazza centinaia di migliaia di metalmeccanici proprio contro il «modello Pomigliano», Marchionne è il prototipo dell´imprenditore che scarica sui lavoratori colpe che non hanno. Un vecchio schema abusato, pre-globalizzazione, non proprio innovativo. Perché, al contrario – secondo Epifani – «il problema ormai è il Lingotto», o Marchionne, ma non gli operai.
Così la «vertenza Fiat» torna ad essere, come tante volte nel passato, uno spartiacque per le relazioni industriali. C´è un prima e ci sarà un dopo, ma saranno diversi, senza continuità. E – come sempre – ci saranno vincitori e sconfitti. Questa è la posta in gioco tra Torino e i sindacati. Per questo è una prova di forza. «E Marchionne – sostiene Epifani – è un grandissimo negoziatore».
«Avevamo capito da tempo – ragiona il leader della Cgil – che Marchionne fosse molto scettico sul futuro della Fiat in Italia. Lo avevamo capito dopo la decisione di chiudere lo stabilimento siciliano di Termini Imerese e poi dall´ipotesi per molto tempo in ballo di chiudere anche Pomigliano d´Arco. E ancora dal fatto che a Mirafiori non sono arrivati nuovi modelli mentre a Torino continua ad esserci un problema di sovraccapacità produttiva. Ecco perché eravamo scettici. Abbiamo assistito a una sorta di roulette russa. Davvero c´è qualcosa che non torna».
L´obiezione a Epifani è scontata: le fabbriche italiane non sono efficienti, tanto Marchionne ha detto che il gruppo andrebbe meglio senza i nostri impianti. «Ma come si può pensare che dagli stabilimenti italiani provengano anche degli utili quando sono praticamente fermi. Si fa cassa integrazione dappertutto. E si ricorre alla cassa integrazione perché il mercato europeo non va bene in particolare per i marchi Fiat. Sulle fasce medio alte, quelle che fanno guadagnare, la Fiat è praticamente assente, e su quelle medio piccole la concorrenza è agguerritissima. Non ci sono i modelli: questa è la realtà».
Il segretario della Cgil prova a prenderla da lontano. Ricorda che siamo il secondo paese manifatturiero d´Europa, il quinto nel mondo. E che dunque il problema non riguarda l´insieme dell´industria italiana, ma, semmai, il comparto dell´auto, dove, peraltro, proprio la Fiat insieme ai vari governi ha impedito che arrivasse la concorrenza con altri produttori. «Non sarà – dice Epifani – che c´è qualcosa che non funziona alla Fiat?». Oppure che le rigidità sindacali, come sostiene Marchionne, sono incompatibili con i modelli produttivi di quest´epoca? «E perché – replica Epifani – alla Ferrari si preparano a chiudere il 2010 come l´anno record? Non siamo sempre in Italia? Il fatto è che nessuno ha applicato lo schema Marchionne: prima si decide come si produce e poi cosa si produce. Ma non è mai stato così. E´ un atteggiamento sbagliato. Si è sempre fatto il contrario. Ma davvero si può pensare che tutto dipenda da un turno in più o in meno? Marchionne sta soltanto cercando di prendere tempo per poi decidere cosa fare. Dico di più: nominiamo una commissione neutrale, può anche istituirla il Parlamento, per verificare se sui turni ha ragione la Fiat oppure gli operai che dicono di non farcela. Ma non si può accettare la posizione di Marchionne: o si fa alle mie condizioni oppure nulla».
Resta il fatto che l´ad del Lingotto farà vedere le sue carte solo quando sarà assicurata la «governabilità» delle fabbriche. «Allo stato – dice Epifani – non c´è niente di niente. Non c´è un progetto industriale per l´Italia».
La Repubblica 25.10.10
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“Marchionne: senza l´Italia la Fiat guadagnerebbe di più”, di P.G.
“Nemmeno un euro dei 2 miliardi di utile operativo viene dagli impianti nazionali”. “Il Paese perde terreno da 10 anni: siamo fuori dall´Europa e dai Paesi più vicini, non reggiamo il passo. Non c´è neppure uno straniero che investe qui”
Senza l´Italia la Fiat starebbe meglio. Ospite di Fabio Fazio Sergio Marchionne non usa giri di parole e all´ora di cena annuncia al paese che gli stabilimenti italiani del gruppo sono in fondo alla classifica della produttività: «Senza l´Italia la Fiat potrebbe fare di più. Pochi giorni fa abbiamo presentato i costi trimestrali: nemmeno un euro dei due miliardi di utile operativo previsto per il 2010 viene dall´Italia». Questo perché l´Italia è «al 118 posto nella classifica dell´efficienza del lavoro e al 48 esimo per competitività. E negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata. Siamo fuori dall´Europa, non abbiamo saputo tenere il passo. Non c´è nessun straniero che investe qui». Dunque l´ad propone ai sindacati di accettare le regole del contestato accordo di Pomigliano per ottenere quegli incrementi di produttività che servono a risalire la china. In cambio «mi impegno a portare i livelli salariali al livello di quelli dei paesi più vicini». Sarebbe un salto notevole perché in Germania lo stipendio di un operaio metalmeccanico sfiora il doppio di quello dei colleghi italiani. Il 2 ottobre Marchionne aveva previsto che con le nuove regole di Fabbrica Italia gli operai Fiat avrebbero percepito fino a 3.000 euro all´anno in più.
Ma il messaggio serale dell´ad del Lingotto ha diversi destinatari. Duro con la Cgil e con i dipendenti licenziati a Melfi. Marchionne contesta la ricostruzione fatta finora dalla magistratura: «Se tre persone bloccano da sole la produzione di una fabbrica di 5 mila persone, quella non è democrazia, è anarchia. La Fiom non è maggioranza, rappresenta solo il 12 per cento dei nostri dipendenti». Per l´ad l´introduzione della nuova organizzazione del lavoro prevista a Pomigliano anche a Melfi «non è una novità perché già a Mirafiori quel sistema è in vigore». Effettivamente a Mirafiori da anni si utilizza la nuova organizzazione produttiva, da quando il pm Raffaele Guariniello, che indaga sull´incremento delle malattie da sforzo ripetuto, ha chiesto di modificare quella precedente. Ma a Mirafiori le pause sono oggi di 40 minuti mentre a Melfi saranno di 30.
Non meno duro Marchionne è con il governo: «La Fiat è l´unica azienda europea che non ha bussato alle casse pubbliche per uscire dalla crisi. Lo hanno fatto con i loro governi i francesi e i tedeschi mentre da noi si sono decisi gli incentivi che al 70 per cento hanno favorito l´acquisto di auto straniere, francesi e tedesche». Infine una battuta in risposta alla curiosità di Fazio su un suo possibile ingresso in politica: «Io? Non scherziamo, io faccio il metalmeccanico e produco auto, camion e trattori».
Le reazioni all´intervista di Marchionne sono state immediate. Piccato il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi: «E´ legittimo che l´ad del Lingotto invochi maggiore produttività ma non deve dimenticare che la maggioranza del sindacato e le istituzioni si sono già resi concretamente disponibili ai cambiamenti». Sostanzialmente uniti, per una volta, i sindacati che criticano l´intervista sia pure per motivi diversi. «Marchionne deve smetterla di continuare a umiliare i lavoratori», dice Paolombella della Uilm. Per Vitali della Fim «deve credere di più nell´Italia e finirla di tenerci appesi sul futuro degli stabilimenti italiani». Airaudo della Fiom: «Già i predecessori di Marchionne dicevano che gli stabilimenti italiani non erano competitivi. Anche lui sa che la produttività non si recupera tagliando le pause di dieci minuti».
La Repubblica 25.10.10