Si parla spesso di “malasanità” in Italia. Lo si fa, generalizzando, a proposito di ospedali pubblici. Sovente a sproposito. Così i potenti delle cliniche private se ne giovano, immeritatamente. Di rado si parla di “buonasanità” (non fa notizia). Non la si evoca, per gli ospedali pubblici, nemmeno laddove – nel Centro-Nord, a isole nel Sud – essi funzionano in modo soddisfacente, dopo che la rete, negli anni, è stata a fatica razionalizzata. A Roma poi è una moda diffusa “sparare” sulle strutture pubbliche, malgrado negli anni passati si siano compiuti grandi sforzi per migliorarne le strutture, per lo più elefantiache, ereditate dal passato, per qualificare l’assistenza medica e quella infermieristica. Sento allora il dovere civile di rendere una mia personale testimonianza sulla “buonasanità”, nel caso sul Policlinico Umberto I° di Roma, al centro in passato di tante polemiche. Giuste e meno giuste.
La mia storia. Avverto per la seconda volta un senso di diffusa oppressione al petto. Alle 14,30 entro al Policlinico Umberto I°, lo conosco soprattutto per il Centro per la cura dell’ipertensione, nato in un sottoscala, con Gianfranco Turchetti e poi diventato una struttura preziosa, per migliaia di persone. Il primo elettrocardiogramma è “sospetto”. Il secondo pure. Mi portano al Pronto Soccorso per gli esami enzimatici. Da ripetere a intervalli di ore. Il luogo non è dei migliori, è vero, però tutti si prodigano. Incrocio un medico, Alessandro Coppola, dalla vista lunga: «Meglio verificare subito. Se lei è d’accordo, l’unità emodinamica opera ancora, fanno la coronografia e decidono». Guardo mia moglie. «Va bene, subito». Sono le 17.
Avverto il solito gelo delle sale operatorie. Mi spogliano, mi rassicurano. Il primario è sotto i 40. Giovane l’intera “équipe”. La meritocrazia non è morta dunque. Passano da una vena del braccio. Osservo di sguincio alla tv cosa succede al mio cuore. Un vaso quasi chiuso, un altro malmesso. Intervengono sul primo, decisi, tranquilli. Per un’ora e mezza. Ogni tanto mi chiedono come va. «Bene», ed è vero. Massimo Mancone, il capo “équipe”, è soddisfatto. Mi hanno praticato un’angioplastica. «L’altro vaso lo trattiamo fra tre giorni, non vorrei stressarla troppo».
Non sono mai stato ricoverato in un ospedale, in terapia intensiva. Una decina di letti, molto spazio intorno, i più con l’ossigeno, tutti collegati al proprio monitor che registra, giorno e notte, e squadre di medici e di infermieri: prelievi, elettro ed ecocardiogrammi, la pressione, i farmaci, cominciando alle 6 del mattino sino a fine giornata. La prima notte non è facile. L’hai scampata bella, mi dico. Ringrazio il medico che mi ha spedito alla coronografia, mi conosceva di nome: essere giornalisti aiuta. Ma ti procura la frecciata di qualche infermiere: «Già, voi della malasanità…». Sorrido e abbozzo un «ha ragione». I monitor, colorati e sempre accesi, ogni tanto danno l’allarme. Da letto a letto diventiamo presto conoscenti (ho ritrovato, venti metri più in là, un collega della “Stampa” assunto da Ronchey, parleremo più volte di Alberto). Siamo tutti bloccati, ai monitor, al catetere. Ci hanno lasciato il cellulare, da usare con discrezione, sms per lo più. Mia figlia Nicoletta mi porta una radiolina di quelle a sogliola. Sento in cuffia un po’ di musica, Radio3, Radio radicale, la Roma che finalmente vince… Un ambiente “umano”. Ogni letto diventa una “couche” famigliare. Così ci si abitua meglio a tutto.
Il personale medico è ottimo, presente, rassicurante (Vizza, Ferrante, tanti nomi dovrei fare). Anche quello infermieristico, donne soprattutto, è valido, efficiente. A partire dalle caposala. Ci sono turni un po’ meno buoni, però la media è alta: Sabrina, Caterina, Stefania, Ombretta sono abili, sdrammatizzanti, veloci, siamo letteralmente nelle loro mani coi nostri corpaccioni, per giorni. Passa e ripassa, premuroso, l’infermiere Leonardo. Un’assistenza che nelle cliniche private te la sogni. Mi colpisce l’attenzione dedicata ai più anziani. Una notte ne ricoverano d’urgenza, davanti a me, uno di 95 anni, dal viso congesto. Luci accese, tutti intorno a lui. Il giorno dopo vorrebbe già dialogare. Ci sente poco. Comunichiamo a sorrisi. «Peccato», mi dice salutandomi, va in geriatria. «L’avèmo rimesso a novo», commenta Sabrina. Coi primari, coi loro aiuti ci sono stuoli di specializzandi, molte ragazze, belle spesso. «Vedi che l’Italia non è quella delle veline», mi fa mia moglie. «Qui c’è una gioventù bella, seria, studiosa». Sì, ho conosciuto una buona Italia. Che si dovrebbe poter diffondere vincendo la cattiva politica. Altro che tagli indiscriminati di letti. Altro che malasanità pubblica. Pensiamoci: grazie al centrodestra buttiamo il bambino e ci teniamo l’acqua sporca.
L’Unità 23.10.10