Fallito il “blitz-Gelmini”, che ne sarà dell’Università italiana? Finora la scelta del governo di procedere a spallate ha generato una prevedibile contrapposizione: da un lato, i profeti della “riforma epocale” da approvare subito a scatola chiusa; dall’altro, il “tanto peggio tanto meglio” di chi si augura il fallimento di qualsiasi riforma. Due radicalismi uguali e contrari che si sorreggono a vicenda e rischiano di produrre il solito risultato: nessuna riforma. Oppure una riforma di propaganda, che dice di voler cambiare tutto a patto che “nulla cambi”.
Il rischio è che chi protesta senza proporre si trovi a dover ringraziare il governo se trovasse le risorse – una riduzione dei tagli già in vigore, in realtà – per consentire al sistema universitario nel 2011 di sopravvivere e per una norma utile solo per qualche migliaio dei 26.000 ricercatori strutturati, nell’intento di placarne la protesta, e senza nuove posizioni di accesso alla carriera, come ha rilevato Irene Tinagli. Dunque, nessuna prospettiva per le decina di migliaia di ricercatori, specie precari, che chiedono solo un’opportunità di misurarsi.
Abbiamo almeno un mese di tempo: passiamo dagli slogan e dalle chiacchiere sul “merito” al merito dei veri problemi. Il punto di partenza è che il DDL Gelmini è sbagliato, inutile e dannoso, perché sancisce il disinvestimento strutturale nell’Università, e fa il contrario di quanto dovrebbe. Un iper-normativismo borbonico e un iper-centralismo delle burocrazie ministeriali; nessuna seria innovazione nella governance degli atenei, che rimarrà esposta alle pressioni corporative, col solo aumento del potere dei rettori, privo di un’effettiva responsabilità. Nessuno strumento per favorire l’orientamento, premiare il merito degli studenti “privi di mezzi”, abbattere i costi diretti e indiretti dell’università per le famiglie. Italia 2010: fuga dall’università. Le immatricolazioni sono calate negli ultimi 6 anni del 14%: aumentano sia quanti cercano l’università “sotto casa” per ragioni economiche, sia quanti scelgono la via dell’università estera (ma attraiamo meno del 3% di studenti stranieri, un terzo della media OCSE). In Italia l’Università continua a essere per pochi, pur essendo pagata da tutti: su 10 laureati, solo 1 è figlio di non diplomati, contro i 4 di Francia e Gran Bretagna. Inoltre, le astruse norme sul reclutamento hanno conseguenze disastrose: molti meno docenti di ruolo, molti più precari, minore qualità; la carriera sarà una scommessa avvolta nel mistero. Diamo i numeri: 12+3+2+3. Vent’anni di didattica e ricerca nell’università, spesso in un precariato senza diritti, prima di entrare nel magico mondo dei professori. Largo ai giovani, non c’è che dire!
Dunque, fermare il DDL Gelmini è stato un bene. Ma riformare l’Università , con cambiamenti radicali che portino qualità al sistema, è necessario, e non farlo sarebbe un male. Rovesciamo la logica: autonomia vera e valutazione severa per gli atenei, regole certe fondate sul merito perché la carriera universitaria attragga i migliori e non chi se lo può permettere: stop al precariato col contratto unico di ricerca, tempo determinato per 3 o 6 anni e poi in cattedra se lo si merita, ruolo unico, età media e pensione dei docenti come nel resto del mondo, sblocco del turn-over per i nuovi ricercatori. E almeno 15.000 professori selezionati in base al merito in 6 anni, per evitare che il loro numero sia dimezzato (ne servirebbero più che adesso, come tutti sanno). L’università deve rimettere in movimento il Paese, deve essere fatta per quelli che hanno voglia di studiare, deve promuovere la mobilità sociale e geografica.
E gli investimenti? In Italia nel 2007 erano poco più della metà della media OCSE (0,8% del PIL, contro 1,3%), e da allora il governo li ha tagliati del 20% (1,4 miliardi di euro), mentre Francia e Germania hanno investito miliardi in ricerca e innovazione. Tremonti ha torto: università e ricerca “si mangiano”, perché senza investire in conoscenza l’Italia non sarà più in grado di agganciare la crescita e non uscirà mai dalla crisi. E ha ragione Andrea Cammelli, che sul Mulino ci ricorda che “il contadino, in anni di carestia, taglia su tutto ma non sulla semina”. L’Università è la nostra semina. Alle regole per un governo efficiente e responsabile degli atenei, deve accompagnarsi un quadro certo di risorse, come ha ribadito pochi giorni fa il Presidente Napolitano: l’obiettivo realistico è la media OCSE entro il 2020, attivando subito un piano di investimenti in infrastrutture scientifiche, diritto allo studio, giovani ricercatori finanziato con l’asta per le frequenze liberate dalla transizione al digitale, che invece il governo vuole affidare con un “beauty contest” che non porterebbe un euro nelle casse dello Stato, ma molta tranquillità a Mediaset.
Le leggi devono servire all’Italia del futuro, non alla vanità personale di un ministro la cui credibilità diminuisce di giorno in giorno (quello vero si chiama Giulio Tremonti). Archiviato il “blitz Gelmini”, facciamo la vera riforma dell’Università: su sistema e governance, diritto allo studio, carriera docente e risorse, il PD offre le sue proposte ad un confronto che coinvolga il Paese e affidi al Parlamento la responsabilità di decidere, facendo prevalere l’interesse generale alle logiche di schieramento.
*Responsabile nazionale Università e Ricerca del Partito Democratico
da Il Messaggero