L’analisi di Calamandrei si impone oggi come ieri. Passa attraverso la capacità di promuovere una istruzione che rialzi in tutta la società i livelli di cultura la possibilità di realizzare una compiuta democrazia che dia a tutte e tutti una effettiva pari dignità:
«L’UOMO NON PUÒ ESSERE LIBERO se non gli si garantisce un’educazione sufficiente per prender coscienza di sé, per alzar la testa dalla terra e per intravedere, in un filo di luce che scende dall’alto in questa sua tenebra, fini più alti».
In libreria torna il famoso testo-pamphlet contro l’istruzione privata.
Uscirà a giorni, edito dalla Sellerio, nella collana «La memoria», una nuova edizione del libro di Pietro Calamandrei «Per la scuola». La prefazione che riportiamo in ampi stralci in queste pagine è del linguista Tullio De Mauro . Calamandrei considerava la scuola un organo costituzionale della democrazia e come la più iniqua e dannosa delle disuguaglianze il privilegio nell’istruzione. Privilegio rafforzato dall’indebolimento della scuola pubblica a vantaggio di una privata ricca e protetta.
Un governo che come quello italiano attuale con la sua legge finanziaria riduce pesantemente il numero degli insegnanti e la possibilità del loro normale ricambio nelle scuole e nelle università pubbliche e taglia e si propone di tagliare ancor più di anno in anno e per anni i fondi già miseri assegnati; una maggioranza che prepara un emendamento per stabilire che il taglieggiamento non colpirà le scuole private; un governo che, mentre scrivo (10 novembre 2008) si sbraccia e sgola per assicurare che no, tranquilli, taglierà i fondi alla scuola pubblica, ma mai alla privata; e gli emendatori di maggioranza che prontamente dichiarano di essere «soddisfatti per le assicurazioni date oggi dal governo per il reintegro dei fondi da destinare alle scuole non statali»: tutti danno un assai poco gradevole sapore di attualità alle parole di Calamandrei. I «cuochi di questa bassa cucina» dopo sessant’anni sono alacremente al lavoro per cucinare la loro ricetta.
Dunque c’è della attualità immediata in questi scritti solo nel tempo remoti. E c’è anche là dove Calamandrei sorprendeva la sua platea e sorprenderà più d’uno ancora oggi prendendo la distanze da un laicismo che della politica scolastica vede un solo aspetto, la lotta contro le intrusioni clericali e nel 1950 al congresso dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale diceva: «PUÒ VENIRE SUBITO in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualcosa di più alto (…). Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questo Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà».
C’è «qualcosa di più alto» e il «più alto» è percepire e rimuovere le condizioni di incultura che minano profondamente il passaggio da una democrazia puramente formale a una democrazia sostanziale. Con mezzo secolo d’anticipo Calamandrei precorre le analisi critiche della democrazia intesa come puro meccanismo elettorale periodico gestito dalle dirigenze di partito e avvio una risposta che trascende tali critiche (e trascende anche il laicismo di chi a volte pare che se ne starebbe contento in un paese di analfabeti purché usciti da una scuola non confessionale). Così diceva e così parla anche a noi:
«IL SISTEMA ELETTORALE non è che uno strumento giuridico, cioè formale; perché la democrazia si attui è necessario che tutti i componenti del popolo siano messi in condizione di sapersi servire di fatto dello strumento elettorale, per i fini sostanziali ai quali è preordinato. I fini di un governo democratico, nel quale la nomina dei governanti è giuridicamente rimessa alla scelta dei governati, saranno tanto meglio raggiunti quanto meglio da questa sua scelta usciranno eletti i più degni: cioè i più capaci, intellettualmente moralmente e tecnicamente, ad assumere nel popolo funzioni di governo. Ma per ottener ciò occorre non soltanto che gli elettori abbiano di fatto capacità di scegliere, cioè di valutare comparativamente i meriti e le attitudini di coloro che stanno per esser chiamati a coprire i pubblici uffici, in modo da saper distinguere i più degni; ma occorre altresì che i più degni si trovino di fatto in condizione di essere scelti, cioè che veramente tutti i cittadini siano in condizione di rivelare e sviluppare le loro qualità sociali, in modo che la scelta, compiuta nell’ambito del popolo intero, possa rappresentare veramente la scoperta e la messa in valore degli elementi più idonei della società. Il problema della democrazia si pone dunque, prima di tutto, come un problema di istruzione. Per far sì che gli elettori abbiano la capacità di compiere una scelta consapevole dei rappresentanti più degni, è indispensabile che tutti abbiano quel minimo di istruzione elementare che valga ad orientarli nelle varie correnti politiche a guidarli nel discernimento dei meriti e delle competenze dei candidati; ma sopra tutto è indispensabile che a tutti i cittadini siano ugualmente accessibili le vie della cultura media e superiore, per far sì che i governanti siano veramente l’espressione più eletta di tutte le forze sociali, chiamate a raccolta da tutti i ceti e messe a concorso per arricchire e rinnovare senza posa il gruppo dirigente.
«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, com ei suoi critici hanno cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, del numero cieco sull’intelligenza individuale, della massa analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati della cultura, ma nell’ambito di tutto un popolo reso capace dell’istruzione di giudicare i più degni».
Come in filigrana, in queste pagine che “Il Ponte” pubblicò nel 1946, intravediamo le linee di azioni vol-te a garantire e potenziare una scuola per la democrazia: la battaglia per ottenere che uno, due anni dopo la Costituzione sancisse gli “almeno otto anni” di istruzione “obbligatoria e gratuita” come diritto e do-vere di ogni cittadino (art. 34, c. 2); la lunga e non facile lotta per ottenere dalla metà degli anni cinquanta al 1962 che l’articolo della Costituzione diventasse realtà con la realizzazione della scuola media unica. Ma, diversamente da quanti facevano resistenza all’idea del più largo sviluppo dell’istruzione post elementare, Calamandrei non si proponeva solo il traguardo della media unificata. La sua analisi precorre quelle che veniamo facendo dagli anni novanta e che tuttora stentano a tradursi in fatti e pare utopia e ha avversari in tutto lo schieramento politico la proposta di portare l’istruzione scolastica per tutte e tut-ti fino alle soglie dell’università, come avviene del resto nei paesi progrediti, un’istruzione scolastica “elastica” che si offra con un ricco ventaglio di scelte in un percorso essenzialmente unitario:
«BISOGNEREBBE STUDIARE il modo di far sì che la scelta della professione fosse differita a un’età il più possibile prossima a quella della piena maturità intellettuale, o che in ogni caso potesse esser soggetta a revisione fino alla soglia dell’Università, agevolando allo studente fino agli ultimi anni degli studi medi il passaggio da un tipo all’altro di scuola. Questo è uno dei grandi pregi del sistema scolastico vigente negli Stati Uniti, dove fino all’Università la distinzione tra i vari ordini di studi rimane estremamente elastica e permeabile alle più svariate esperienze e ai più ritardati pentimenti; e in ciò è forse una delle ragioni per le quali in America, nonostante il sistema capitalista, il ricambio sociale è tanto più attivo e rapido che da noi. Questo infatti, attraverso il continuo affluire di nuove forze sociali rivelate e educate dalla scuola, è il segreto della continuità e della vitalità dei veri sistemi democratici: la classe dirigente in continuo ricambio, aperta all’ininterrotto emergere dei migliori».
A una tal considerazione Calamandrei giungeva per forza di riflessione, certamente. Ma queste riflessioni, che suonano ovvie non solo negli Stati Uniti ma in gran parte del restante mondo civile, in Italia erano di pochi (e di pochi restano). Non è illegittimo chiedersi se nello svolgerle Calamandrei avesse tratto ispirazioni da altri. Un libro che ebbe grande fortuna prima e dopo la Prima guerra mondiale e di cui Calamandrei, come ricorda opportunamente Silvia Calamandrei, conosceva assai bene l’autore, le Lezioni di didattica di Giuseppe Lombardo Radice, contiene a riguardo pagine significative. È uno stringente ragionamento psicologico e pedagogico, arricchito da una gustosa testimonianza autobiografica, quello che portava Lombardo Radice a condannare la scelta precoce di una professione negli anni della prima adolescenza e a sostenere che scegliere è opportuno dopo l’offerta e la fruizione di un vario esperire solo al termine degli studi medio superiori. Oggi anche le neuroscienze aiutano a capire quanto mutevole e bisognoso di esperienze varie e varianti è il cervello degli adolescenti fino alle soglie dei vent’anni.
… Per Calamandrei il pieno sviluppo della scolarità, e non solo elementare, è un prerequisito essenziale di una democrazia non solo formale. L’idea di scuola come «organo costituzionale», un cui corollario è la necessità di un impegno pubblico nell’aprile e tenere scuole aperte a tute e a tutti, è il suo lascito. Se quella scuola non diventa reale:
«VIENE A MANCARE DI FATTO, se non di diritto, quel continuo ricambio sociale, quella circolazione delle élites, attraverso la quale si opera senza posa nelle vere democrazie il rinnovamento della classe politica dirigente, che non rimane una casta chiusa, ma costituisce veramente in ogni momento la espressione aperta e mutevole delle forze più giovani della società, confluenti da tutti i ceti a rinnovarla e a ravvivarla. Proprio in questo cristallizzarsi della cultura in una minoranza privilegiata, dove le professioni intellettuali sono legate alla ricchezza più che all’intelligenza e tramandate pigramente di padre in figlio senza più alcun adeguamento ai meriti o alla vocazione, è la ragione del miserabile declinare della classe dirigente italiana (…): proprio qui è da cercarsi la causa più profonda del facile trionfo del fascismo, in questa fiacchezza, in questa anemia, in questa indifferenza, in questa senilità di un gruppo politico grettamente trincerato nei suoi privilegi di censo e di istruzione».
Tullio De Mauro, l’Unità del 3.12.08
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