attualità, politica italiana

«Lo stato della forza», di Giuseppe D'Avanzo

Frastuono e molti strepiti. Previsti, utilissimi per la congiuntura politica, come vedremo, ma non troppo ragionevoli. Se i corifei del Cavaliere che oggi fanno confusione avessero chiesto all´avvocato del premier Nicolò Ghedini se dietro la convocazione di Silvio Berlusconi in procura a Roma ci sia una manovra politica, un accanimento giudiziario, una trappola mediatica probabilmente si sarebbero sentiti rispondere: no, ragazzi, calma, è più o meno un atto scontato che ci aspettavamo da quando abbiamo saputo a Milano che le indagini sui diritti tv di Mediaset per gli anni 2003 e 2004 erano state trasferite nella Capitale per competenza: in quei due anni, infatti, la società sotto inchiesta, “Reti televisive italiane” controllata Mediaset al 100%, aveva sede legale a Roma.
«Era proprio necessario un invito a comparire?», avrebbero potuto allora chiedere gli sdegnati (a comando) turiferari del Cavaliere. Ghedini, se in vena di schiettezza, avrebbe saputo spiegare loro che l´invito a comparire non è altro che un espediente dei pubblici ministeri per guadagnare un po´ di tempo.
Sapete, avrebbe potuto dire l´avvocato, quei poverini si sono trovati sul gobbo un processo più o meno già morto perché la prescrizione – che meno male ci siamo accorciato con una legge ad hoc – lo avrebbe cancellato già la prossima settimana e allora per stiracchiare i margini quelli hanno firmato l´invito a comparire. Il provvedimento interrompe i tempi della prescrizione e il rimedio potrebbe concedere ai pubblici ministeri più o meno un altro anno e mezzo.
Naturalmente, nessuna assennata decifrazione del provvedimento della procura di Roma avrebbe fermato gli schiamazzi perché l´invito a comparire precipitato nel conflitto politico consente al Cavaliere, da un lato, di far dimenticare che cosa gli viene contestato nel processo e, dall´altro, gli permette di rilanciare l´offensiva contro la magistratura, contro la Costituzione, contro gli organi di controllo come la Consulta. In effetti, come sempre i suoi processi, anche l´inchiesta sui diritti tv di Mediaset potrebbe mostrare con quali pratiche sono stati costruiti il successo e la fortuna di Silvio Berlusconi. Il meccanismo ipotizzato dal pubblico ministero è simile a quello del processo in cui Berlusconi è imputato a Milano di frode fiscale per i fondi neri creati da Mediaset attraverso la compravendita dei diritti Tv e cinematografici. Mediaset, con la Rti, rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors americane, come fino agli anni ‘80 faceva personalmente Silvio Berlusconi, e affida l´incarico a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama. Una bizzarria, in apparenza. Perché pagare a un mediatore una provvigione quando un rapporto diretto con le majors oltre che più efficace sarebbe stato più economico? Semplice, sostiene l´accusa: per “fare la cresta”.
Le cose andavano così, per i pubblici ministeri: Mediaset non compra direttamente, ma da quell´Agrama. Acquista con società offshore (Century One e Universal One e altre come la Wiltshire Trading e la Harmony Gold). A loro volta queste cedono i diritti ad altre società gemelle. Il prezzo, a ogni cambio di mano, si gonfia. La differenza tra il valore reale del diritto di sfruttamento televisivo del film e quello pagato in Italia, alla fine di quella catena di Sant´Antonio, consente a Mediaset di mettere da parte un bel gruzzolo al riparo del fisco sottraendo risorse alla società quotata in borsa e dunque alla disponibilità degli azionisti. Mediaset nega tutto con collera: «I diritti cinematografici sono stati acquistati a prezzi di mercato e tutti i bilanci e le dichiarazioni fiscali della società sono stati redatti nella più rigorosa osservanza dei criteri di trasparenza e delle norme di legge».
È una sicurezza che dovrebbe convincere Silvio Berlusconi ad affrontare il processo, come un cittadino tra i cittadini, e non evitarlo come l´inferno, la peste, una maledizione, ma – si sa – da quell´orecchio il Cavaliere è sordo (io, unto dal Signore, uguale agli altri?) e diventa muto come un pesce quando è chiamato a spiegare i metodi del suo lavoro. Così c´è da scommettere che il 26 ottobre, giorno della convocazione in procura, il premier non si presenterà dinanzi ai pubblici ministeri. Che comunque con la loro mossa dovuta gli consentono di rilanciare il piano annunciato a Bonn il 10 dicembre 2009. Ricordate? Disse Berlusconi: «Oggi in Italia la sovranità è passata dal Parlamento al partito dei giudici. Dobbiamo rimediare. La Costituzione italiana dice che la sovranità appartiene al popolo, è il popolo che vota ed è il Parlamento che fa le leggi, ma se queste leggi non piacciono al partito dei giudici della sinistra questo si rivolge alla Corte Costituzionale che ha undici componenti su quindici che appartengono alla sinistra. Di questi, cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra. Quindi da organo di garanzia la Corte costituzionale si è trasformata in organo politico che abroga le leggi decise dal Parlamento. Quindi la sovranità oggi in Italia è passata dal Parlamento a partito dei giudici. Una situazione transitoria perché stiamo lavorando per cambiarla, anche attraverso una riforma della Costituzione».
Detto fatto perché Berlusconi, gran bugiardo, quando parla di giustizia è sempre sincero e fa sempre quello che dice. Così è già pronto il progetto di rendere “qualificata” la maggioranza nella Corte Costituzionale per bocciare o promuovere una legge. Servirà il sì o il no di due terzi dei giudici, 10 su 15. Il nuovo ordine, mostrato e proposto già ai leader della maggioranza, è stato per il momento accantonato nelle bozze che saranno sottoposte al consiglio dei ministri la prossima settimana. Rimane lì come una minaccia, che può essere sempre riproposta, e soprattutto come segnale della volontà di Silvio Berlusconi di passare da una Costituzione che prevede una democrazia liberale basata sulla divisione dei poteri e sui controlli reciproci a un´altra incardinata sull´investitura popolare-elettorale che rende onnipotente colui che l´ottiene. Un sistema costituzionale nel quale l´investitura popolare ha la meglio su ogni limite e controllo con il rischio, per ripetere qui una preoccupazione di Gustavo Zagrebelsky, di precipitare «dallo stato di diritto allo stato della forza», dalla democrazia liberale a «un dispotismo in forma democratica» perché è autoritaria una democrazia dove il governante non sta sotto la legge (lex facit regem), ma è il governante a farsi la legge su misura (rex facit legem). Sarà interessante capire se Gianfranco Fini seguirà il Cavaliere lungo questa deriva. Se ne deve dubitare. Già dopo l´esternazione di Bonn, lo lasciò solo. Disse il presidente della Camera: «Le parole di Silvio Berlusconi, secondo cui la Consulta sarebbe un organo politico, non possono essere condivise» perché «è certamente vero che la “sovranità appartiene al popolo”, ma il presidente del Consiglio non può dimenticare che esso “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). Ed è altresì incontestabile che gli articoli 134 e 136 indicano chiaramente il ruolo di garanzia esercitato dalla Corte Costituzionale».
Sono parole che ripetute oggi possono mandare a gambe all´aria il progetto di riforma costituzionale della giustizia che separerà le carriere dei magistrati; spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura; sottrarrà la polizia giudiziaria al controllo del pubblico ministero; introdurrà la responsabilità civile delle toghe e l´inappellabilità delle sentenze se l´imputato è assolto. Intorno a questa riforma punitiva dei giudici – più che migliorativa della giustizia – si giocherà e in tempi brevi la partita finale e il destino della legislatura. Come già è stato detto, sarà sulla giustizia che cadrà il governo e l´invito a comparire per il Cavaliere, anche se espediente processuale, è soltanto l´avvenimento che accelera i tempi della resa dei conti dentro la maggioranza.

da www.repubblica.it