Nonostante la soddisfazione espressa dal vertice del Pdl, è difficile credere che Napolitano abbia sostenuto ieri sulla durata dei processi le stesse tesi del presidente del Consiglio. Il richiamo del Quirinale è alla lunghezza abnorme dei procedimenti e all’impossibilità per il cittadino di veder riconosciuti i propri diritti. Quindi il sollecito è alla politica affinché affronti la riforma della giustizia nella sua globalità, con l’obiettivo di restituire efficacia alla macchina giudiziaria.
Il punto di vista di Berlusconi è diverso, o almeno tale appare. L’insistenza sul «processo breve», da conseguire con un dispositivo di legge ad hoc, rischia di compromettere un numero esorbitante di processi in corso e su questo la polemica è nota. Quel che è peggio, Berlusconi dà sempre l’impressione di avere in mente solo il suo caso personale (il processo Mills) e di cercare la «brevità» per trovare la prescrizione.
I due approcci sono quindi opposti. Il capo dello Stato ricorda alla politica che esistono solo i problemi generali, collettivi, e che le riforme devono essere concepite a vantaggio dei cittadini. Il premier, viceversa, quando si tratta di giustizia non riesce a sollevarsi al di sopra della mischia. Così facendo, toglie credibilità ai suoi stessi progetti riformatori: il che spiega perché da anni il governo non riesce ad affrontare i problemi di fondo della giustizia, riproposti con enfasi ancora pochi giorni fa nel discorso programmatico in Parlamento.
Ma la sensazione è di un motore che gira sempre a vuoto, nonostante lo sforzo personale del ministro Alfano. E infatti sul nervo dolente della giustizia martella il presidente della Camera, dichiarando alla stampa estera, con tono persino provocatorio, che su questo terreno «il governo può davvero cadere».
E così il cerchio si chiude. Da un lato Napolitano ricorda quale sia la responsabilità della politica – e dunque in primo luogo del governo – di fronte all’inefficienza della macchina giudiziaria. Dall’altro Fini conferma che la giustizia è oggi soprattutto un nodo irrisolto, una ferita che lacera la maggioranza. E che il governo rischia di dissolversi a meno di non voler stabilire una netta distinzione tra lo «scudo» posto a salvaguardia del premier, per proteggerlo dai processi nel corso del mandato, e la prospettiva di una riforma che deve corrispondere all’interesse generale. L’intreccio tra questi due piani può essere distruttivo.
Sul terreno della logica nulla vieta al presidente del consiglio di riprendere in mano l’iniziativa come suggerito dal Quirinale. Cancellando la sensazione che l’argomento giustizia sia visto solo in chiave strumentale. Quindi niente leggina sul «processo breve» e addio ai tentativi di agire sulle prescrizioni con la mente rivolta al processo Mills. Sì invece al «legittimo impedimento» (lo scudo giudiziario per le alte cariche), correndo il rischio che i tempi lunghi della legge costituzionale non siano conciliabili con la vicenda in corso (di nuovo il caso Mills). E nel frattempo si può lavorare alle linee generali della riforma, magari discutendone con i magistrati i punti controversi.
Sulla carta non sembra impossibile. In realtà la matassa è così ingarbugliata che forse è tardi per tutto. La giustizia – o meglio i processi che riguardano il premier – è il tema con cui Fini sta logorando Berlusconi. E quest’ultimo avrebbe bisogno, mai come oggi, di un colpo d’ala.
Il Sole 24 Ore 13.10.10