Si possono assumere le conclusioni della recente assemblea nazionale del MEIC (il movimento culturale di Azione Cattolica) che a proposito della politica scolastica di questo Governo ribadisce, tra l’altro, la contrarietà ai tagli: “spendere meno non significa spendere meglio”, e a riforme per decreto legge, schierandosi a favore di percorsi legislativi che possano coinvolgere oltre al Parlamento anche la società civile e il mondo professionale della scuola.
Prima ancora di entrare nel merito dei singoli provvedimenti non si può non constatare da un lato che le risorse devono andare a sostegno di un progetto e non viceversa, come sta accadendo ora, dove tutto viene ritoccato semplicemente al ribasso, e, dall’altro, riformare la scuola come se fosse solo una questione amministrativa significa privarla di una delle condizioni oggi decisive per il suo rilancio, quella di riavere una considerazione sociale.
La scuola, così come l’università e, più in generale, il sistema formativo, devono riprendere i contatti con la società; le proteste esprimono una forte aspettativa nei confronti della politica, facendo emergere disagio e incertezza per il futuro.
Il ministro Gelmini con i suoi interventi depotenzia il diritto allo studio e accoglie i giovani con un supplemento di autoritarismo.
Togliere risorse al sistema pubblico si rivela fallimentare anche sul versante della richiesta delle famiglie, le quali scelgono perlopiù i “contenitori”, ma alla qualità dei contenuti devono pensare i responsabili del sistema stesso, come i dati OCSE – PISA ci insegnano.
Non si può dunque esprimere un parere positivo su un progetto che non c’è, ma occorre anche costruirne uno alternativo, rilanciando altresì modelli virtuosi che il centro sinistra in tanti territori sa esprimere. Ripartire dai territori dunque pensando all’education, sulla scorta di cornici normative che già esistono e che aspettano di essere sostanziate da progetti che innovino il sistema formativo e lo inseriscano in modo propositivo nello sviluppo delle stesse comunità.
Siamo abituati a riforme scolastiche che incidono sulle strutture, in modo generalizzato e si esauriscono tra gli addetti ai lavori, in un intreccio di programmi e discipline di insegnamento, mentre il confronto internazionale, l’analisi degli apprendimenti, la complessità dei contesti e l’integrazione dei saperi, ci indicano il governo del sistema la vera azione strategica per il Paese, soprattutto per quelle realtà marginali che solo dalle politiche pubbliche possono trarre garanzia per i diritti di cittadinanza.
Fare formazione oggi non è più solo un problema dei docenti, ma c’è bisogno di un ampio coinvolgimento delle famiglie, delle amministrazioni locali, del mondo produttivo, ecc., finalizzato alla costruzione del “capitale sociale”. E’ qui che bisogna vedere gli effetti di certi provvedimenti del governo sui cittadini.
Oggi purtroppo la scuola non è ritenuta all’altezza di soddisfare una richiesta che lega strettamente la formazione delle persone ad una ricaduta rapida delle competenze nel lavoro.
E’ormai retorica quella che proclama il sistema formativo super partes, come esigenza del Paese, ma poi quando una parte governa va dritto per la sua strada e anche il “cacciavite” fatica a penetrare.
C’è una linea riformista che può interessare i due principali schieramenti, di governo e di opposizione ? Essa non deve interessarsi tanto di singoli provvedimenti, ma intervenire sui nodi di fondo, accumulati in tanti anni ormai, che una volta sbrogliati possono davvero rendere più fluida la costruzione del sistema.
Il primo di questi nodi riguarda, come si è detto, il governo di tale sistema. Il conflitto tra Stato e Regioni ci porta alla moltiplicazione dei centralismi: occorre partire dalla proposta di intesa che la Conferenza delle Regioni ha deliberato per l’applicazione del titolo Quinto della Costituzione, per dare definitivamente una fisionomia all’autonomia delle istituzioni scolastiche ed ai poteri locali, consentendo così l’attivazione di sistemi territoriali. Una tale intesa può rilanciare sul fronte statale la definizione delle “norme generali, principi fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni”, questi ultimi indicati anche nella bozza Calderoli sul federalismo fiscale, mentre su quello regionale si può incentivare una legislazione per il governo dei sistemi territoriali.
Qui ci sta il secondo nodo, cioè il rapporto pubblico – privato. Ormai il problema non sembra più quello della gestione, ma della “funzione pubblica” del servizio, nonchè delle garanzie che debbono fornire i soggetti gestori. Si pensi ai risultati già raggiunti con la legge n.62 del 2000 circa il “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione”, modellato sul “sistema integrato” per l’infanzia indicato da una legge regionale dell’Emilia Romagna del 1995, circa la stipula di convenzioni tra le scuole dell’infanzia statali, degli enti locali e private. Quasi tutte le Regioni poi hanno accreditato soggetti privati nel settore della formazione professionale e altro si potrebbe dire sul fronte della sussidiarietà.
A livello comunitario è piuttosto avanzata la strumentazione per la certificazione delle competenze ed il riconoscimento dei crediti, sia per i giovani che per gli adulti.
Il terzo nodo riguarda le risorse finanziarie. E’ un problema di definire l’entità degli investimenti rispetto al PIL, nell’economia della conoscenza, ma anche di guardare alla composizione della spesa (in Europa ci sono diverse modalità di organizzazione della stessa), che deve vedere alleanze virtuose, in primis con regioni ed enti locali, finanziamenti comunitari, ecc.. Si tratterà di definire i costi standard, come è indicato nella suddetta bozza federalista, ma anche di prevedere che il finanziamento del servizio tenga conto di indicatori di qualità.
Infine l’aspetto più delicato ma improcrastinabile è quello della politica del personale. I tagli sono deleteri, ma la riorganizzazione è indispensabile. In sintesi:requisiti nazionali, gestione locale; autonomia e responsabilità; valutazione e supporti. C’è già in campo un masterplan delle regioni che si occupa anche del governo funzionale delle così dette risorse umane, ed una sentenza della Corte Costituzionale del 2004 legittima il passaggio con un’adeguata legislazione regionale.
Merito, qualità, equità, parole che circolano spesso in entrambi gli schieramenti. La differenza starà nel metterle in pratica, dimostrando in concreto chi è davvero riformista.
pubblicato su Europa, 28 novembre 2008