Barack Obama ne chiede la liberazione, la Francia e la Germania sottoscrivono, il mondo intero si congratula mentre Pechino grida all’ «oscenità » e convoca l’ambasciatore norvegese in Cina.
Il premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo scuote i rapporti tra oriente e occidente ma crea disaccordi anche tra i suoi sostenitori che si dividono tra chi, come gli Usa, chiede a Pechino un gesto concreto in grado di dimostrare che al salto economico si possa affiancare un’inversione di rotta sul fronte dei diritti umani, e chi, come l’Europa, non trova la forza di una posizione unitaria e, ancora una volta, va in ordine sparso. E desta anche qualche preoccupazione, come dimostra la reazione del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon che, soddisfatto per l’importante riconoscimento, esprime però la «sincera speranza» che il premio non rappresenti un ostacolo a futuri progressi nell’agenda cinese sul fronte dei diritti umani.
La richiesta di liberare «al più presto» Liu, simbolo della lotta per i diritti umani che sta scontando una condanna a 11 anni di carcere, è arrivata dal premio Nobel dello scorso anno, il presidente americano Barack Obama, convinto che negli ultimi 30 anni la Cina abbia fatto «enormi progressi» nel campo delle riforme economiche, «migliorando la vita della sua popolazione», ma anche che la riforma politica non abbia «seguito lo stesso ritmo»e che i diritti umani debbano essere rispettati. Un gesto concreto, che chiedono anche Francia e Germania, mentre Bruxelles si limita alle felicitazioni, senza alcuna richiesta ufficiale. Come l’Italia, reduce dal vertice italo-cinese, che definisce il Nobel «un riconoscimento internazionale per tutti coloro che lottano per la libertà e i diritti della persona».
Nessun commento arriva dal Vaticano, mentre i missionari «plaudono» alla decisione perchè, assicurano, è così «caduta la muraglia di omertà che l’occidente ha mantenuto in questi anni nei confronti di una situazione gravissima». Felicitazioni per il riconoscimento a Liu, arrivano dai nomi illustri che prima di lui hanno ottenuto il Nobel. Primo fra tutti un altro ‘dissidente’, il Dalai Lama, la vera spina nel fianco del regime cinese. «È un riconoscimento della comunità internazionale – dice- all’innalzamento della voce del popolo cinese». Ma anche da Lech Walesa, premio Nobel nel 1983, che definisce il riconoscimento «una sfida per la Cina e il mondo intero».
Parla di decisione «storica» Taiwan, mentre Amnesty International chiede a Pechino «la liberazione di tutti i prigionieri di coscienza». Una voce fuori dal coro arriva invece proprio dal ‘padre’ della dissidenza cinese Wei Jingsheng, convinto che l’intellettuale insignito del Nobel sia in realtà un moderato pronto a collaborare. E che per questo abbia ricevuto il premio.
L’Unità 09.10.10