IL 29 settembre il pensiero di tutti era rivolto ad altro. Poi d’improvviso è comparsa, sul sito del ministero dell’Economia, la prima Decisione di Finanza Pubblica (Dfp). È un documento annunciato dalla riforma delle procedure di bilancio varata a fine 2009. Arriva con mesi di ritardo, stranamente senza che nessuno, neanche dai banchi dell´opposizione, si sia premurato di lamentarne la mancanza. In realtà la Dfp non decide nulla, si limita a fotografare l´esistente. Sarebbe stata utile come cornice per la manovra varata in primavera. Invece arriva con l´autunno annunciando nella premessa di essere non solo la prima, ma anche l´ultima Dfp a vedere la luce, perché il coordinamento delle politiche di bilancio a livello europeo imporrà, d´ora in poi, un diverso titolo e calendario (speriamo rispettato) per questo documento.
Ma la vera ragione per cui sarà l´ultima decisione di finanza pubblica è nel voto di fiducia alla Camera che ha certificato come ormai l´unica vera priorità dell´agenda di governo è quella di prendere tempo, sopravvivere, rinviando ai posteri ogni decisione impegnativa. Peccato, perché questa ultima decisione ci va già stretta: la Dfp nasce già vecchia. Le revisioni del Patto di Stabilità e Crescita su cui sta maturando un consenso a livello europeo rendono, infatti, gli scenari di finanza pubblica prospettati in questa “decisione” del tutto inadeguati. Tra l´altro il documento, a pagina 19, ultimo capoverso, ci informa che la manovra varata prima dell´estate è destinata ad avere risultati inferiori al previsto per via dell´andamento deludente delle entrate. In effetti, nei primi sei mesi dell´anno le entrate tributarie sono calate del 3,5 per cento nonostante i due trimestri di crescita della nostra economia. Gli scostamenti sono ancora contenuti (si tratta di circa 3 miliardi di entrate in meno), ma fanno riflettere sulla possibilità di recuperare davvero più di 8 miliardi all´evasione fiscale da qui al 2012, come previsto dalla manovra.
Non è invece la prima volta e non sarà certo l´ultima che un governo punta solo a spostare la sua fine più in là. Ma la delusione tra chi aveva creduto in un esecutivo capace di decidere è questa volta più forte. Per via dei numeri che la maggioranza poteva esibire in entrambi i rami del Parlamento: sarebbero stati più che sufficienti per prendere decisioni importanti. E anche perché l´indecisione condita ad un attivismo di facciata nei primi due anni e mezzo di vita del governo hanno creato una miscela esplosiva: si sono moltiplicate le decisioni che dovranno, prima o poi, essere prese da qualche politico per ovviare a un vuoto normativo. Si sono scientemente rimossi molti automatismi di sistema rendendo l´incapacità dei governi di decidere ancora più onerosa per famiglie e imprese. È finita l´era della “bella figura”, titolava qualche settimana fa la “Lex Column” del Financial Times: l´economia italiana non può più andare bene prescindendo dalla politica, dall´avere un governo capace di decidere.
Gli esempi di come l´incapacità di decidere ha generato ulteriore indecisione abbondano. Dei dodici decreti previsti dalla legge delega sul federalismo, solo due sono stati varati. Questi due si limitano a demandare a ulteriori deleghe: sono una delega della delega. Si pensi al cosiddetto federalismo demaniale che chiederà allo stato di decidere cosa è alienabile e cosa no e a comuni e regioni di scegliere cosa fare di questi beni in base a principi tra di loro contraddittori, tra i quali qualcuno (chi?) dovrà prima o poi operare una scelta. Le bozze di decreto che determinano i costi standard, non contemplano alcun criterio oggettivo nel riparto della spesa sanitaria. Saranno tutte decisioni politiche che, quel che è peggio, dovranno essere rinegoziate ogni anno. Insomma, nessuna decisione, salvo quella di aumentare il numero e la frequenza delle decisioni che dovranno essere prese in futuro. Altro esempio, forse più vicino alle imprese, in questi mesi nella concessione della Cassa integrazione c´è stato il sorpasso degli strumenti ordinari da parte di quelli in deroga, demandati alle scelte discrezionali della politica. Il risultato è che molte imprese e lavoratori non sanno se potranno contare ancora su questi ammortizzatori sociali l´anno prossimo. Al posto del “nuovo Statuto dei Lavori” che doveva essere completato entro il primo anno di governo, c´è stato solo il collegato sul lavoro all´ultima Finanziaria: 50 articoli, alcuni dei quali con 40 tra commi e sottocommi, che servono solo a concedere al Governo una delega a scrivere altri commi. Il disegno di legge sull´università approvato a luglio dal Senato contiene più di 150 deleghe che rinviano alla produzione di altre leggi, per un totale di circa 500 nuove norme, che imporranno interventi legislativi per poi aggiungersi a un apparato normativo già elefantiaco. Purtroppo non si può neanche fare finta di nulla, pensando che tanto le deleghe non verranno mai esercitate. Bisogna, al contrario, cominciare ad attrezzarsi ad un cambiamento che magari non interverrà mai. Siamo in quell´interregno dove fioriscono le consulenze giuridiche. I consulenti del lavoro, non a caso, sono in continua crescita in un periodo di forte crisi occupazionale.
Il crescente distacco del mondo imprenditoriale e delle associazioni di categoria da questo governo riflette l´insofferenza per una paralisi decisionale più costosa che in passato. È un disagio che misura anche lo spazio per un´alternativa. Dovrebbe l´opposizione mostrare di essere capace di decidere su alcuni punti programmatici, come l´ingresso dei giovani nel mercato del lavoro (le cui asperità sono state ieri ulteriormente documentate dall´Istat), i nuovi ammortizzatori sociali, la riforma fiscale e le liberalizzazioni. Se non è in grado di farlo che ameno si impegni sin d´ora a sfoltire il calendario delle decisioni politiche: meno rinvii, meno deleghe delle deleghe, più automatismi. Sarebbe anche questo un modo per ridurre, e per davvero, i costi della politica italiana.
L’Unità 01.10.10