Coordina il gruppo di lavoro dell’Alma Mater che, in collaborazione con il Politecnico di Milano, pochi giorni fa ha conquistato le pagine della prestigiosa rivista Nature con una scoperta eccezionale: la prima “fotografia” del meccanismo molecolare alla base della vista umana. Non è un precario: eppure come i ricercatori precari patisce un senso di abbandono crescente, tanto che «la tentazione di andare all’estero è sempre più forte». Succede così che anche Marco Garavelli, 41 anni, ricercatore confermato all’istituto Ciamician dell’ateneo bolognese, si schieri nel fronte dei docenti “agitati”: che per tutta la prossima settimana alle lezioni sostituirà incontri in facoltà per spiegare le ragioni della protesta che ha “paralizzato” l’ateneo. Dal 5 ottobre poi l’incognita: rientrare in classe o continuare la mobilitazione? Loris Giorgini, rappresentante dei ricercatori nel Cda dell’Alma Mater, non si sbilancia: «Sono scelte personali, ma certo nessuno vuole spaccare l’ateneo, faremo quello che unisce di più». Intanto si sfrutterà al massimo la settimana di discussione decretata venerdì dal Senato accademico. Ognuno ha una storia da raccontare. Dentro e fuori l’ateneo: perché se c’è una cosa che la notte bianca della ricerca ha fatto capire loro, è che nel paese «non c’è assolutamente la percezione di casa faccia un ricercato re», nota Garavelli. Lui si definirebbe così: «Qualcuno che semina oggi per raccogliere i frutti in futuro». Nel suo caso la scoperta appena fatta potrà portare, un giorno, a progettare congegni molecolari che riproducano il meccanismo della visione: nuove memorie ottiche, sensori avanzatissimi. In Italia però «la classe politica ha sempre ignorato il valore della ricerca per la crescita dell’economia. Con una disattenzione cronica e patologica per gli atenei, che sono gli unici spazi in cui si fa ricerca». Se dunque i problemi «non nascono solo con il ddl Gelmini», di certo «gli ultimi e progressivi tagli rendono insostenibile la ricerca e dunque la didattica, che senza la prima non può essere eccellente». Di questo passo, se oggi si assiste a una continua fuga di cervelli, il rischio è che presto si arrivi «alla loro completa assenza». Guai allora a bollare quella dei ricercatori com euna lotta corporativa, «qui nessuno dice che vogliamo fare carriera a tutti i costi – ribatte Garavelli – reclamiamo solo il diritto a essere giudicati, anche ferocemente,ma per quello che facciamo. E a essere pagati di conseguenza». Guai anche a parlare di privilegiati: «Non mi sento tale. Tutti i giorni sto fuori dalle 6.30 alle 20, faccio il pendolare da Cesena. Guadagno un terzo rispetto ai miei colleghi europei, che alla mia età sono già professori con meno pubblicazioni delle mie».E ora il ddl Gelmini, oltre a non sciogliere il nodo delle risorse per la ricerca, lo rende anche una figura «a esaurimento», senza nessun chiarimento sul suo status giuridico e sul suo futuro. Si sta così dopo dieci anni di “carriera”, figurarsi agli inizi. A 31 anni Maurizio Fiaschè – un dottorato concluso a gennaio come ingegnere informatico specializzato in intelligenza artificiale -può vantare pubblicazioni tali da essere stato invitato a Pechino per il primo congresso mondiale di nano-medicina. Non ci andrà: nessuno è disposto a pagarli il biglietto aereo. Nè l’ateneo di Reggio Calabria (di cui è originario), dove ha una borsa post doc a titolo gratuito, né il ministero della Salute con cui collabora a due progetti, sempre senza compenso. Resterà a Piacenza, dove vive e lavora come consulente informatico, unica fonte di reddito. «Questo invito non è cosa di tutti i giorni senza uno sponsor alle spalle – sospira –ma non posso pagarmi tutto da solo. Sono stato all’estero e posso dire che solo qui c’è la strana idea per cui il destino di un ricercatore è passare anni a lavorare gratis in università. La protesta contro il ddl Gelmini? Non riguarda solo noi, il problema è complessivo, vedi i criteri di reclutamento – il ministro mente quando dice che finalmente diverranno trasparenti. Vorrei che tutti lo capissero
L’Unità/Emilia-Romagna 26.09.10
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«Per noi non c’è futuro e nemmeno presente»
Serena Fagnocchi, ricercatrice di fisica. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Fisica nel 2005cui sono seguiti contratti di ricerca in vari istituti (Bologna, Roma, Trieste). Da un po’ sono emigrata per disperazione. Sì, perché qui in Italia non c’è futuro per noi. Non c’è neppure presente ad essere sinceri. Per noi ricercatori precari esiste solo un lunghissimo limbo fatto di obbedienza, attesa, promesse fasulle, promesse sincere ma disattese «perché la nuova finanziaria ha tagliato altre risorse» o perché «quello scampolo di borsa di studio è stato riassorbito», oppure «perché il posto del professore ordinario andato in pensione è stato riassegnato al 20%», oppure… c’è sempre un oppure per noi, che pure svolgiamo un lavoro di altissima qualificazione accontentandoci di stipendi indecorosi, ridicoli se confrontati agli altri paesi, senza diritti, sempre sotto il ricatto di chi può trovare un varco anche per te in questo mondo. La situazione dell’Università in Italia è drammatica. Frutto di decenni di abbandono, se non di sistematico smantellamento, come quello cui si sta assistendo con questo Governo. Parlano di qualità e merito,e intanto tagliano gli investimenti già gravemente anemici e intorbidiscono i metodi di assunzione. Mi si vuole spiegare come si intende alzare la qualità della ricerca in Italia se si investe meno dell’1% del PIL, mentre Stati Uniti e Europa Occidentale stanno al 3%, e stati come Israele quasi al 5%? Ma non è solo un problema «di fondi», ma di fondo. Del ruolo che l’Università deve avere nella società di un Paese: formazione della persona e del pensiero, veicolo di nuove idee e punta di diamante nel dialogo con la società produttiva, che per affrontare le nuove sfide che questo mondo ci propone può competere solo puntando sulla qualità e sul sapere dietro ogni prodotto. Invece da noi la percentuale di laureati è al 14%, la metà esatta della media OCSE e lontanissimi daquel40%fissato dall’Europa come obiettivo per il 2020. I dottori di ricerca non si sa neppure cosa sono, figuriamoci se si sa cosa farsene. E tutto questo mentre il Governo dice che da noi ci sono troppi laureati, che non servono. I ricercatori di Bologna stanno mettendo in atto forme dure di protesta come il blocco degli insegnamenti. Forse occorre ricordare che la didattica non è tra gli incarichi dei ricercatori, sui quali invece grava una parte molto consistente dei corsi. Essi stanno usando l’unica leva che dispongono per far valere i loro diritti, sia difendendo dall’attacco del governo quelli acquisiti (pochi) sia quelli che rivendicano (pochi anche questi, solo minima decenza). Hanno tutto il mio appoggio, e spero vivamente che siano con loro tutte le varie anime dell’Università (dagli Ordinari al Rettore, agli studenti) in uno spirito finalmente coeso e forte, per il bene di tutto il sistema, abbandonando logiche piccolo-protezionistiche. Come disse Riccardo Giacconi, premio Nobel per la Fisica nel 2002: «Finché in Italia fare il ricercatore non è considerata una professione come le altre,ma piuttosto una missione, come per frati e preti, non esiste futuro per la Ricerca del Paese. Essa dovrebbe attrarre i cervelli migliori e valorizzarli, invece li mortifica e li costringe ad emigrare regalando ad altre nazioni la nostra materia prima migliore, e chi resta non è necessariamente il migliore,mail più tenace, il più raccomandato, il più manipolato ».È ora di invertire questa direzione.
L’Unità/Emilia-Romagna 26.09.10