Ci sono motivi contingenti. Ci sono evidenti pretesti. Ci sono persino questioni caratteriali. Ma sarebbe davvero miope e provinciale non alzare lo sguardo sul preoccupante segnale che la cacciata di Alessandro Profumo manda alla comunità economica e politica internazionale. Un segnale che supera la sorte personale di un manager e sul quale, invece, va concentrata l’attenzione, perché svela, con il massimo clamore mediatico, il rischio di una involuzione del sistema finanziario nel nostro Paese.
L’ex amministratore delegato di Unicredit ha pagato certamente anche una serie di errori che, negli ultimi anni, hanno offuscato, ma non possono far dimenticare, il fondamentale successo della sua carriera: essere riuscito a costruire, nei quindici anni del suo mandato in piazza Cordusio, la seconda banca europea, l’unico istituto di credito italiano con una vera, grande apertura sullo scenario del mondo. Una posizione brillante, ma anche scomoda, perché esposta più di altre banche ai contraccolpi della crisi internazionale. Ma una vocazione alla quale non si deve rinunciare, per non tornare a rinchiudersi nel vecchio orizzonte dei confini nazionali.
Quello preferito dalla politica per esercitare quell’influenza e quel sostanziale controllo, di cui la nostra memoria ancora non può dimenticare i nefasti effetti su tutto il sistema economico negli ultimi decenni del secolo scorso.
Profumo si è servito, con grande abilità e con indubbia spregiudicatezza, di una serie di circostanze irripetibili: la necessità di una crescita dimensionale del sistema creditizio italiano, la debolezza del potere politico nella fase di transizione dopo la cosiddetta prima Repubblica, lo scudo delle neonate fondazioni azioniste, così come furono concepite da Amato e da Ciampi, i padri di questi strani istituti, ircocervi di natura mista, pubblica e privata. Così ha potuto disporre di un potere assoluto, per certi versi anche incontrollato, trasformando la sua banca in una specie di public company.
Questo mutamento dell’identità del suo istituto, se, da un lato, gli ha concesso la massima libertà decisionale, dall’altro, l’ha costretto a subire la regola di tutte le public company. Fin quando gli azionisti ricevono ghiotti dividendi, si accontentano di staccare l’assegno e di ringraziare l’amministratore delegato; quando i profitti mancano e sono costretti a rimpinguare i patrimoni traballanti, il licenziamento è un provvedimento annunciato. Ancora una volta, il rischio di questo tipo di capitalismo finanziario si è dimostrato con tutta la sua evidenza, perché è difficile sostenere obiettivi di medio-lungo periodo, se chi gestisce l’azienda si deve solo preoccupare dei risultati nel bilancio dell’anno. Il venir meno di quello scudo delle fondazioni azioniste, preoccupate dalla riduzione delle risorse da distribuire sul territorio e incalzate da una classe politica che è tornata a reclamare il suo potere di clientela e di gestione occulta delle banche, ha segnato la fine non solo della carriera di un manager, ma di una intera fase del sistema finanziario nel nostro Paese. Profumo ha certamente compreso il significato di questo cambiamento del quadro nel quale era abituato a muoversi, ma non è riuscito a sapersi proporre come gestore anche per il «dopo Profumo». D’altronde, gli uomini migliori sono quelli che sanno far bene una cosa e non esistono quelli sanno fare anche l’altra.
Non bisogna dar troppa importanza alle logomachie dei partiti, alle loro polemiche strumentali, alle battute tronfie e arroganti di chi cerca di vendersi come vincitore di battaglie in cui ha fatto solo la parte della comparsa. Né vale soppesare le alleanze mutevoli e sorprendenti di alcuni potenti personaggi dell’establishment nazionale, come il ministro Tremonti, difensore imprevedibile di un Profumo azzoppato. Perché quello che davvero conterà sarà la sorte delle fondazioni ex bancarie nel prossimo futuro. Dipenderà dai loro gruppi dirigenti se riusciranno a conservare quella autonomia dai condizionamenti politici che ha consentito sia lo sviluppo dei nostri istituti sul mercato internazionale del credito, sia una gestione che ha potuto evitare i fallimenti che sono avvenuti in tanti Paesi occidentali durante la fase più acuta della crisi finanziaria. Dipenderà da loro se garantiranno ai manager delle loro aziende quella prospettiva, lunga sul piano temporale e ampia su quello internazionale, che non trasforma l’azionista in un raider di Borsa.
Le preoccupazioni sono fondate, ma sbaglierebbe chi sopravvalutasse le tentazioni dei politici, tanto abili a vendere un potere che, almeno finora, non è riuscito a espugnare più di tanto le roccaforti delle fondazioni. Una indicazione importante, invece, verrà proprio dalla scelta del successore di Profumo all’Unicredit. L’autorevolezza e l’indipendenza del nuovo manager costituirà un significativo avviso sui caratteri della nuova strada che si appresta a percorrere il sistema creditizio del nostro Paese. Purché la nuova strada non assomigli troppo a quella vecchia.
La Stampa 22.09.10