La diminuzione di risorse per il sistema scolastico è generalizzata; le cifre più evidenti sono in termini di posti di lavoro, ma ci sono tante altre fonti di finanziamento, dirette e indirette, che vengono progressivamente limitate.
E’ necessario considerare che a partire dal 1997 con la legge n. 440 (reinvestimento dei risparmi sulla qualificazione dell’offerta formativa) e 59 (autonomia), le competenze sul sistema scolastico sono state decentrate alle scuole autonome ed agli enti territoriali, mentre le risorse sono rimaste centralizzate.
Oggi pertanto le Regioni programmano l’offerta, ma lo Stato fornisce il personale; le istituzioni scolastiche sviluppano una più ampia contrattazione con il territorio, ma è sempre lo Stato che detiene i cordoni della borsa.
Il disinvestimento riguarda:
– Gli organici: siamo al secondo anno di un piano triennale, anche se le cifre vengono spalmate su una diversificata gamma di situazioni, per cui i risultati sono molto eterogenei. Ed è per questo che il Governo fa lo slalom cercando di far credere che non ci siano riduzioni: vedi il tempo pieno, che di fatto diminuisce, ma può beneficare di vari residui orari del vecchio ordinamento, che consente alle scuole di far fronte alle emergenze.
I tagli sono lineari, uguali per tutti, anche se il sistema si comporta in modo diverso nelle varie parti d’Italia; l’effetto di questa operazione si vedrà sempre di più nei prossimi anni.
– Le revisioni ordinamentali sono tutte al risparmio: maestro unico (24 ore), rispetto al modulo (27 – 30 ore), tempo pieno senza compresenze (un maestro per ogni metà giornata), scuola materna ad orario parziale (l’altra metà è sempre più a carico degli enti locali o delle famiglie), scuola media a 30 ore (non più a 33), il tempo prolungato a 36 solo se restano risorse (quasi mai); diminuzione degli orari nelle superiori: licei 27 ore biennio 30 ora triennio contro le 34 dei percorsi sperimentali; istituti tecnici e professionali 32 anziché 36. Nella scuola dell’obbligo si torna spesso alle “pluriclassi” e sono sempre più a rischio ad esempio le scuole di montagna, che devono essere bilanciate con il numero degli alunni delle classi nei centri urbani.
C’è il pericolo che dopo l’asilo nido le famiglie non trovino più la scuola materna; ci saranno sempre meno percorsi per adulti ed il numero degli alunni per classe aumenterà anche oltre la capienza delle aule (norme di sicurezza).
– I patti di stabilità interni agli enti locali impediscono di investire in tal senso e la recente manovra a carico dei medesimi e delle Regioni si abbatterà ancora di più su questo settore.
– I finanziamenti diretti alle scuole sono ridotti al lumicino: i crediti accumulati nei confronti del ministero sono enormi, per spese di funzionamento e per i supplenti. Da questo punto di vista le scuole si rivolgono sempre di più alle famiglie, creando un sistema socialmente ed economicamente sperequato, anche se è permesso loro di detrarre fino al 19% dell’imponibile (chi ha l’imponibile ?) le spese scolastiche (non per i libri di testo). Anche le donazioni “liberali” sono defiscalizzate, ma poco praticate, per le aziende infatti non è facile arrivare all’imponibile.
I sistemi regionali delle borse di studio sono allo stremo, a fronte di un aumento della povertà e la diminuzione delle risorse, mentre alcune regioni offrono doti/voucer per la frequenza alle scuole private/paritarie, in maniera diversificata (di meno) per la frequenza a quelle statali/comunali. Il diritto allo studio è in pericolo!
– L’aprire il fronte dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione verso la formazione professionale e l’apprendistato oltre ad essere a sua volta un impoverimento sul piano della qualità dell’offerta formativa, è un’ulteriore occasione di risparmio e per addossare alle regioni (fondo sociale europeo) i costi di un avviamento precoce al lavoro, spesso di scarsa qualità anche rispetto alle richieste formative dello stesso mondo aziendale (ma forse alle imprese fa piacere tornare ad un mercato del lavoro più disponibile per l’abbondante presenza di giovani apprendisti ?).
– Vengono tagliati gli scatti di anzianità del personale della scuola ed è bloccato il rinnovo del contratto (il promesso recupero entro il 30 % dei fondi stanziati per il “merito” non solo è insufficiente, ma denota una politica incoerente rispetto alla promozione della qualità del sistema) .
– Il tanto declamato merito degli studenti viene contratto. A coloro che conquistano la lode agli esami di stato, al termine delle scuole superiori, il premio da 1000 euro scende a 600 e vengono ristrette (solo per una questione meritocratica ?) le maglie dei crediti scolastici per arrivare al massimo.
– Diminuendo i posti si allungano anche i tempi di riassorbimento dei precari, e questo significa perdere una generazione di giovani docenti ed aumentare l’età media, che è già una delle più alte d’Europa.
– La recente manovra economica taglia poi su promozioni, straordinari, arretrati
– I contributi annunciati alle scuole non statali non sono ancora stati erogati.
– Sulle sezioni primavera per il prossimo anno non vi è ancora certezza (manca intesa stato – regioni)
La recente indagine dell’OCSE spaventa, ma non meraviglia. L’Italia è l’ultima per investimenti, solo davanti alla Slovacchia, e questo la dice lunga sulla competitività che eserciteranno sempre di più i Paesi così detti emergenti, mettendoci in grave pericolo di marginalità.
Si sa che la crisi ci farà rimanere sostanzialmente poveri, per cui è necessario riorganizzare la spesa per l’istruzione/formazione, sul piano normativo ed economico. Federalismo fiscale: livelli essenziali delle prestazioni (che non sono i livelli minimi del Governo) e costi standard per determinare il concorso degli investimenti.
In questa situazione si devono combattere i così detti tagli lineari, che non tengono conto delle esigenze dei territori, ma che sostanzialmente ribadiscono il centralismo nella gestione delle risorse.
L’autonomia scolastica ed una rappresentanza riconosciuta delle scuole autonome, nell’ambito dell’applicazione del nuovo dettato costituzionale e di un’adeguata legislazione regionale, è l’occasione per costruire un sistema formativo territoriale che regoli il rapporto domanda e offerta (anche se l’offerta non è di puro servizio al cliente, ma di sostegno al cittadino: art. 3 della Costituzione, e quindi deve prevedere un intervento dello stato);
Per quanto riguarda poi il personale: va prevista una spesa dello stato, la definizione dei requisiti e delle modalità di reclutamento a livello nazionale, ma una gestione funzionale delle regioni e delle realtà locali, con organici a livello di istituto scolastico, in collaborazione con altre agenzie formative locali: non si tratta più infatti di decreti salva precari, ma di provvedimenti necessari per combattere il precariato. Questo può accadere se l’organizzazione del servizio viene attuata nei territori, attribuendo a scuole, regioni ed enti locali, la responsabilità dell’utilizzo dello stesso e della relativa stabilizzazione.
Se non sarà più possibile, come in passato, disporre di risorse statali capaci di farsi carico di tutte le esigenze del sistema, lasciando a regioni, enti locali, realtà territoriali di aggiungere specifici interventi, occorre cambiare il quadro dei poteri e delle responsabilità per consentire che dal basso si possa rimettere in equilibrio gli standard con le esigenze finanziarie e la loro reperibilità. Sono le aspettative dei territori a dover indicare i livelli di qualità dei servizi, e da qui iniziare il percorso dei costi standard, locali, regionali e nazionali.
Una volta stabilita la soglia ad esempio regionale si tratta di vedere se il federalismo fiscale si può realizzare a partire dalle così dette regioni virtuose, intervenendo per le altre in modo perequativo, o si debba operare sul costo medio, lasciano proprio alle più efficienti di coprire autonomamente il “pezzo” dell’eccellenza. Non si vorrebbe che nell’applicazione della legge Calderoli, alla fine la montagna partorisse il topolino e cioè che i costi standard corrispondessero all’attuale finanziamento statale per la scuola, per giunta decurtato dai tagli di cui si è detto.
Allora bando certo agli sprechi, ma i risparmi devono essere tutti, e non il 30%, reinvestiti sul sistema, come prevedeva la legge 440/1997, e nella riorganizzazione dei poteri e delle competenze, occorre rivisitare il rapporto tra gli standard e le risorse. Si deve dunque ripartire dal territorio, per capirne le esigenze e nello stesso tempo ricercarne le condizioni per farvi fronte e portare poi le istanze ad altri livelli decisionali, nell’ambito di una legislazione regionale che esprime la programmazione territoriale e l’indicazione sul piano nazionale degli obiettivi generali e di prestazione. Diritti dei giovani, delle famiglie e standard, condivisi, di qualità dei servizi.
Insomma la gestione dell’offerta è un problema locale; bisogna ripartire dal “sistema delle autonomie”, che dialogano, investono, crescono, si confrontano, allargandolo progressivamente ad altri interlocutori, e, via via, mettersi in grado di competere su scala internazionale, anche per quanto riguarda le ricadute sul versante del lavoro e della continua civilizzazione.
Se lo stato ha tagliato, si dice, più di otto miliardi di euro, a poco serve l’analisi delle percentuali sciorinate in questi tempi, che tanto fanno ricordare i polli di Trilussa.
Anche se quei soldi dovessero tornare, cosa molto improbabile, non potrebbero più passare attraverso le forme dell’attuale centralismo, che ha prodotto in piena coerenza i predetti tagli lineari.
La vera riforma è una sola, quella del governo di questo sistema, che può rimettere le radici e far di nuovo rinverdire le foglie, altrimenti i tanti provvedimenti ordinamentali che vengono sfornati a ritmo frenetico sono comunque destinati a seccare.
da educazione e scuola 20.09.10