L’invito, del tutto condivisibile, arriva anche da personalità molto autorevoli, come il presidente della Repubblica: basta con le polemiche a suon di pettegolezzi e di insulti, discutiamo e variamo finalmente le grandi riforme necessarie per l’avvenire del nostro Paese. L’intento è lodevole, ma il riformismo, di per sé, non garantisce un buon risultato. Anche se la diagnosi del male che si vuol curare è giusta, ci sono terapie inefficaci e addirittura medicine che aggravano il male, con effetti opposti a quelli che si volevano ottenere. Come ha scritto, qualche giorno fa, Bill Emmott sulla Stampa, pure copiare la formula vincente all’estero non assicura all’Italia lo stesso successo.
L’esempio più efficace e clamoroso di questo cattivo riformismo si trova nel settore dove, negli ultimi tempi, più si è rovesciata la furia di cambiamento dei vari governi, di entrambi gli schieramenti: l’università. Una specie di campo di esercitazione per la volontà dei vari ministri che si sono succeduti su quella poltrona di iscrivere il loro nome nella storia delle «svolte epocali» di questa istituzione. Con il risultato di rischiare di essere ricordati come i volenterosi ma maldestri becchini del futuro di tanti giovani italiani. Per poter giudicare gli effetti di una riforma, però, ci vuole soprattutto pazienza, perché solo dopo un congruo periodo di tempo si possono confrontare i traguardi sperati con i risultati ottenuti. Così, per l’università, l’esercizio si può tentare per quella riforma, davvero «epocale», che, circa 10 anni fa, varò, negli atenei italiani, il famoso «tre più due» al posto dei canonici quattro anni per arrivare alla laurea, com’era stabilito nella maggior parte delle nostre facoltà. Ricordiamo le finalità di quella legge, invocata, tra gli altri, anche da Confindustria e sindacati come la terapia giusta per combattere i tre gravi mali della formazione universitaria in Italia: il ritardo con il quale i giovani si inserivano nel mondo del lavoro, la quantità di abbandoni degli studi prima di arrivare alla laurea, cioè la cosiddetta «mortalità universitaria», l’alto costo per lo Stato di ogni studente parcheggiato in quelle aule. La soluzione del problema era semplice: bastava copiare la struttura della formazione accademica europea fondata su lauree brevi di tre anni, lauree magistrali di altri due e, poi, il dottorato di ricerca.
Ebbene, dopo quasi 10 anni, chiunque frequenti un ateneo, per qualsiasi ragione e in qualsiasi ruolo, dovrà riconoscere che quella legge non solo non ha curato quei mali, ma li ha aggravati. Il mondo del lavoro rifiuta la laurea triennale, a cominciare dallo stesso Stato che per gli insegnanti, ad esempio, richiede quelle magistrali. Per non parlare degli ordini professionali, come quello degli ingegneri, degli architetti, degli avvocati. Così, la stragrande maggioranza degli studenti prosegue gli studi dopo i tre anni, con il risultato concreto di allungare e non di diminuire il loro inserimento nel mondo del lavoro. Per non parlare della sorte dei «dottori di ricerca», assorbiti in minima parte dagli atenei e universalmente osteggiati e non assunti dalle aziende.
A questa disgraziata «eterogenesi dei fini», si aggiunge un paradosso che tutti i docenti dei nostri atenei possono confermare. Trascorrere un anno di più, al minimo, nelle aule di giurisprudenza, matematica, lettere o economia non garantisce affatto una migliore preparazione. Anzi, nella grande maggioranza dei casi, il livello culturale dei laureati è peggiorato negli ultimi dieci anni. L’alta quota di «mortalità universitaria», poi, è rimasta costante o è cresciuta, per cui le distanze, rispetto ai Paesi dell’Occidente con i quali ci dobbiamo confrontare, restano umilianti. Il fenomeno del parcheggio di studenti fuori corso da anni si è aggravato, perché la poca spendibilità della laurea triennale ha spinto a un affollamento, di iscrizioni se non di frequenze, verso quella magistrale di allievi poco motivati o non meritevoli, per varie ragioni, di conseguirla. Con l’effetto di mantenere troppo alto e del tutto sproporzionato ai risultati il costo pro-capite dello studente per lo Stato. Dal momento che, come si sa, solo una parte di quel costo viene pagata dalle rette, mentre il resto è a carico della fiscalità generale.
Questo pessimo bilancio della più importante riforma che si sia abbattuta sugli atenei italiani, però, sembra non insegnare nulla ai successori di quelli sciagurati padri portatori di questa insana febbre riformistica che, come un contagioso focolaio di pericolosi germi, infetta inesorabilmente i ministri competenti (?!). Con entusiasmo assolutamente bipartisan, consigliati da esperti disposti, con la massima disinvoltura, a mettere i frutti delle loro fantasie a disposizione di entrambi gli schieramenti politici, i responsabili di quel dicastero non hanno pace. Ogni due, tre anni sfornano una riforma che rivoluziona la precedente. Senza aspettare che il tempo faccia capire gli effetti delle loro mosse. Non li spaventano proteste, critiche, perplessità. Verrebbe voglia davvero di rivolgere un appello controcorrente: ministri, faticate un po’ di meno e pensate un po’ di più.
La Stampa 18.09.10