Nove anni sono passati dall’attentato di Al Qaeda contro il Trade Center di New York, e quello che si diceva allora resta vero: da quel giorno la storia è mutata, la convivenza con i nostri dissimili si è incattivita, nelle menti ha messo radice una passione allo stesso tempo molto antica e moderna, il risentimento. Una passione solo in parte legata agli attentati: poche settimane dopo, l’economista Paul Krugman scrisse che il maledetto imbroglio dell’Enron, rivelato nell’ottobre 2001, aveva incrinato il mondo ben più radicalmente dell’11 settembre.
Altre compagnie erano in passato fallite, ma il crollo della mitica Enron fu un trauma: «L’11 Settembre ci ha insegnato molte cose sul wahabismo, ma non molte sull’americanismo». Nel primo caso gli americani erano vittime, nel secondo perpetratori (New York Times, 29-2-02). Il Paese aveva a lungo ingannato se stesso, immaginando che l’impresa fosse fondata sull’onestà contabile, non bisognosa di vigilanze. L’era del lassismo e della deregolamentazione finì in concomitanza con l’11 Settembre, assai prima che divampasse, nel 2007, la grande crisi. Una crisi delle illusioni, in America ed Europa, non importata dall’estero.
Il risentimento nasce in questi sottofondi melmosi, dove i pericoli interni s’intrecciano agli esterni e vengono da questi ultimi mascherati. Due guerre hanno accentuato il mascheramento (quella in Afghanistan è la più lunga nella storia Usa): lo sguardo fisso sul wahabismo ha permesso di trascurare lo sguardo su di sé, sull’americanismo.
La passione vendicatrice è antica perché rimanda alle pratiche del capro espiatorio: in tempi di malcontento, addita il diverso come responsabile dei mali patiti. René Girard spiega bene, nel libro sulla Violenza e il Sacro, come il gruppo disorientato ritrovi l’unità grazie alla designazione delle vittima sacrificale. I testi sacri sono colmi di riti simili, nonostante la cesura del cristianesimo, e nella modernità il capro prende forme diverse: dell’ebreo, dello zingaro, infine del musulmano. Ritenuto colpevole d’ogni angustia, egli ci consente di stare uniti e conciliare l’inconciliabile: la società aperta e l’intolleranza, il costo delle guerre, i consumi alti e le tasse basse.
Tanto più violento si è infiammato il rancore in America appena si è cominciato a parlare della costruzione di una moschea presso Ground Zero a New York: non una vera moschea in realtà, ma un centro studi musulmano che aspira a costruire ponti e conterrebbe cappelle ebraiche e cristiane (il nome è Cordoba House, in memoria dell’Islam andaluso del X secolo. Obama in nome della tolleranza laica l’ha approvato). L’acme della protesta è stato raggiunto in una città della Florida, quando un pastore evangelista, Terry Jones, ha annunciato di voler rompere il tabù, nell’anniversario dell’11 Settembre, organizzando il rogo di copie del Corano. Una decisione che ha allarmato politici dell’intero pianeta, e che solo all’ultimo, ieri mattina, è stata cancellata.
Ma c’è qualcosa di più sommerso in simili episodi, di inconfessato. Al torbido intreccio fra le due paure – quella del terrorismo islamico, quella della crisi economica – si aggiunge un risentimento insopprimibile, atavico, verso il primo Presidente nero nella storia americana che è Obama. Il rogo del Corano è un rogo per procura del monarca ritenuto usurpatore, straniero. Girard stesso ricorda come anche il monarca, avendo natura sacra, possa divenire capro espiatorio: non re-sacerdote che officia, ma vittima in sospeso, che il popolo si riserva di sacrificare (l’unità e la guarigione di Tebe esigono il sacrificio di Edipo; l’unità della Francia è restaurata dall’esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta).
Anche nel caso di Obama l’elemento religioso-rituale pesa enormemente. Non dimentichiamo che il 31 per cento degli americani è tuttora convinto che Obama sia musulmano: una percentuale più alta che ai tempi dell’elezione. Una porzione egualmente grande pensa che comunque non sia americano, o che sia socialista o nazista. E la crisi ha dilatato questo sentimento, secernendo una fobia verso l’Islam che subito dopo l’11 Settembre non esisteva. Scrive Roger Cohen sul New York Times che solo una scintilla separa il risentimento dall’insurrezione: appena un decennio separò in Germania il rogo dei libri nel ‘33 dai forni crematori.
Ma il risentimento è un fenomeno moderno, sempre più diffuso anche in Italia, Francia, Olanda, Svizzera, Inghilterra. Ovunque ritroviamo il desiderio, fieramente esibito come politicamente scorretto, di rompere i tabù civilizzatori ereditati dall’ultima guerra. Poi ci sono i sondaggi: non sono loro, in nome dell’orda, a dire oggi che re Obama è vittima in sospeso? La Lega e Bossi sono stati i rompighiaccio. È seguita l’Olanda di Geert Wilders, la Svizzera ostile ai minareti, la xenofobia del partito Vlaams Belang in Belgio.
Ora trema anche la Germania, la nazione dove il tabù era più forte. Un esponente non minore della Banca centrale, il socialdemocratico Thilo Sarrazin, ha riscosso un successo imprevisto con un libro uscito di recente (Deutschland schafft sich ab – La Germania distrugge se stessa). Scrive che l’Islam la sta sommergendo; che esistono etnie votate a mai assimilarsi. Parla di genetica, a proposito degli ebrei, per spiegare la loro intelligenza. Licenziato dalla Bundesbank e redarguito dalla Merkel, Sarrazin resta un idolo: l’80 per cento dei tedeschi lo approva.
Alexander Stille narra la genesi di queste nuove destre, in un articolo sulla polarizzazione americana della politica (Repubblica, 28-8-10). Racconta come questa destra trasgressiva e animata da risentimento non consideri mai i fatti ma metta al primo posto la coesione del gruppo, il giudizio dell’orda impermeabile a ogni confronto. Il tea party è un movimento di questa natura, e somiglia a tanti movimenti in Europa e alle destre nate in Italia nell’ultimo ventennio: è compatto, mentalmente predisposto alle ordalie, monade senza finestre che non si nutre di realtà ma di fantasmi. Strutturato come gregge, è autoritario e dipendente da capi-pastori carismatici.
La strategia adottata con successo dai capi-pastori potremmo chiamarla strategia della nicchia: è quest’ultima che va conquistata, più che il popolo nella sua varietà, e il braccio operativo sono i nuovi media come le televisioni berlusconiane, la rete Fox News in America, gli interstizi di Internet. Quel che conta non è raggiungere un pubblico più vasto e plurale possibile, come nei vecchi giornali nazionali. «Captare il 5 o il 10% del mercato è già un successone», scrive Stille e anche per i politici delle nuove destre americane è così: «Perdono seggi sicuri, ma in compenso raggiungono una compattezza e una coesione politica a volte invidiabili per un partito democratico viceversa sempre più diviso».
In questo il risentimento è molto moderno. È la risposta di nicchia al mondo fattosi ampio, alla democrazia imprevedibile del suffragio universale. È la triste passione di chi si trincera nel piccolo gruppo che ti cattiva e ti incattivisce. È il ressentiment descritto da Nietzsche nella Genealogia della Morale (1887): «Mentre l’uomo nobile vive davanti a se stesso con fiducia e apertura (…) l’uomo del ressentiment non è né onesto, né ingenuo, né vero con se stesso. La sua anima è strabica, il suo spirito ama i nascondigli, le vie oblique, le scappatoie; tutto ciò che è nascosto gli appare come il suo mondo, la sua sicurezza, il suo balsamo. È un esperto in fatto di silenzio, di non-oblio, di attesa, di provvisoria diminuzione di sé, di umiliazione». Nella nicchia (televisiva, giornalistica, aziendale, partitica) si compiace di sé. Talmente ferreo è il suo giudizio sulle cose del mondo, che nessun fatto lo destabilizzerà.
La Stampa 12.09.10