Vi é un nome che circola nei siti internet dei simpatizzanti e dei militanti della Lega Nord, quello del conte di Sismondi, uno storico ed economista svizzero che visse tra Settecento e Ottocento e che cercò in Toscana le origini della sua famiglia. Sismondi fu certamente uno dei padri fondatori del federalismo moderno, ma non mancò di vedere e indicare i rischi incubati nel federalismo qualora questo non sia interpretato come una declinazione della teoria della libertà. Il federalismo comunitarista poteva essere altrettanto nefasto di un centralismo arrogante.
Sismondi scriveva nel 1830 che le piccole patrie rendono l´opera liberale impossibile perché possono causare una resistenza riottosa al nuovo e al diverso e una volontà dogmatica di conservazione di supposte tradizioni antiche (questa era, a suo parere, la ragione per la quale la Svizzera aveva ancora una legge che consentiva la tortura). La volontà della nazione, spiegava, è rappresentata nei parlamenti nazionali non nei consigli cantonali, perché l´amministrazione locale non è luogo della sovranità politica ma un suo strumento perché la sovranità deve essere sopra le parti della nazione, sopra comuni e regioni; diversamente, queste ultime sarebbero nazioni e in questo caso si avrebbe divisione non federalismo. Ammoniva la Francia, allora nel bel mezzo di una rivoluzione liberale, a impedire che «il diritto popolare dei rappresentanti dei comuni si mettesse in opposizione al diritto popolare dei rappresentanti della nazione». Paventava scenari preoccupanti se nella giusta lotta contro il centralismo il federalismo avesse preso una piega separatista. E dipingeva questo quadro della Svizzera del suo tempo: «In una città, l´autorità municipale fisserà il prezzo del pane, oppure il salario degli operai o interdirà il trasporto delle derrate da un distretto all´altro; quivi essa autorità municipale escluderà i protestanti, o gli ebrei; colà si opporrà alle misure di finanza; altrove a quelle di difesa nazionale, le quali misure salutari per la nazione, sono ben spesso pregiudiziali alle località».
L´autorità locale si arrogherà il diritto di rappresentare l´intero popolo, educherà i ragazzi nel dialetto locale facendolo passare per lingua comunitaria, li istruirà a considerare la cultura locale come naturale e quella forestiera come artificiale. Cantonismo era il nome che Sismondi dava a queste tentazioni comunitarie, non federalismo. Federalismo era per lui, come per i federalisti seri, un modo di unire non di spezzare l´unità. Certo, sono diverse le strade che portano al federalismo, ma la forza che le spinge é comunque centripeta (da molti stati uno stato), non centrifuga (come nel caso delle defunte Cecoslovacchia e Yougoslavia). Nel secondo caso, infatti, più che di federalismo si dovrà parlare di secessionismo, un destino che soltanto la saggezza di buoni leader politici e la fermezza delle istituzioni dello stato possono bloccare.
Dove fermare la decentralizzazione è il problema vero che dovrebbe interessare anche l´immaginifica Padania della Lega Nord, poiché la Lega non è comunque un´entità rappresentativa di tutte le contrade, le città, le province e le regioni del Nord. E poi, rispetto a regioni che vengono declinate come stati, i municipi diventano i naturali depositari dell´originaria comunità di base, i veri bastioni del federalismo. Non é forse centralista l´amministrazione della regione Veneto rispetto ai suoi comuni come lo è quella di Roma rispetto al Veneto? Quando la sovranità è rivendicata e dichiarata nel nome della omogeneità comunitaria, è davvero problematico controbattere alla rivendicazione di autonomia delle piccole comunità; e nemmeno il comune è la risposta qualora il comune sia una città mentropolitana. Dove fermarsi?
Il fatto è che la battaglia federale della Lega è strumentale, perché in effetti il federalismo è un pretesto per attuare un altro progetto, che è quello di rendere possibile il radicamento di una nuova classe dirigente a livello locale con l´obiettivo di pesare al governo nazionale. Che senso avrebbe la Lega Nord se non ci fosse l´Italia unita e Roma? A che servirebbe radicare una classe dirigente capace di rivendicare (contro chi?) gli interessi del territorio locale? Ma, nella propaganda leghista questi problemi naturalmente tacciono. Tuttavia, la propaganda è una cosa seria, soprattutto per le passioni che mette in moto. Ora, a ragionare come ragionano i leghisti, ovvero secondo una visione comunitaria non liberale del federalismo, rispetto a loro borghi e contrade, i capi della Lega, come i governatori e giù giù fino ai presidenti delle provincie e ai sindaci, non sono forse tutti una oligarchia non meno accentratrice di quella che risiede a Roma? Se svolgiamo con coerenza l´argomento antinazionale caro alla Lega giungiamo in effetti non alle regioni dunque, e forse nemmeno ai comuni, ma invece alla frazione e al villaggio, e ancora più giù al gruppo gregario nel quale tutti si capiscono con un batter d´occhio. La logica comunitaria porta a una frammentazione estrema nel nome della protezione della vera e naturale comunità contro quella grande e artificiale della nazione.
Il conte di Sismondi avrebbe avverito un senso insopportabile di chiusura e avrebbe commentato che questo non è per nulla federalismo, ma immaginario purismo delle origini costruito ad arte per perseguire altri fini. Il federalismo non è chiusura nel piccolo ma strategia attraverso la quale le molte periferie possono meglio comunicare e cooperare tra loro e con il mondo, per meglio cioè trascendere i confini loro. Federalismo come forma di unificazione dunque (i federalisti più visionari pensavano addirittura all´unificazione di tutti i popoli della terra) con lo scopo di evitare che ciascuno resti sepolto dentro le mura di casa propria.
La Repubblica 11.09.10
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