Il tema della scuola è il tema decisivo per chi vuole costruire un’alternativa in questo Paese. Perché ci interroga – tutti – su cosa vogliamo per le future generazioni. Riguarda certamente cosa e soprattutto come si apprende oggi. Che è cosa diversa da ieri e diversa da quel che c’è. Dobbiamo e possiamo proporre una riflessione su questo. Ma ancor prima c’è un altro tema. Che chiama al dibattito. Sono cambiati per sempre i fondamenti sui quali si è a lungo basata la scuola. Infatti è saltato il patto implicito tra scuola e famiglia. Manca, più in generale, il patto tra adulti. Che sta alla base del rivolgersi alle nuove generazioni con vero rispetto e autorevolezza. I docenti di oggi non possono più dare per scontato l’accordo con i genitori dei propri alunni com’è stato per decenni. Né possono farlo gli allenatori sportivi, i
capi scout, gli animatori delle parrocchie, ecc. Questa rottura del patto tra adulti ha molte cause. Che riguardano
il nostro comune paesaggio antropologico e vanno ben oltre l’essere di destra e di sinistra e che sarebbe importante dibattere. La Conferenza episcopale italiana prova a farlo. Tanti docenti ci si misurano nei collegi docenti. Associazioni laiche e cattoliche ne parlano con preoccupazione. E tutti constatiamo che è urgente un nuovo patto tra adulti, una risposta innovativa alla «crisi dell’educare».
Tutti vediamo che contano enormementem i modelli, spesso privi di contenimento e regola, di consumo, comportamento e relazione veicolati dall’insieme della società. E che influenzano lo strutturarsi di ogni ragazzo, il lavoro di identificazione e differenziazione di ogni adolescente. Ma intanto i modi di consumare cose, spazi e tempi, le trasmissioni di Maria De Filippi, il comportamento dei calciatori in campo e dei commentatori sportivi in tv, le bizze delle veline, le risse
politiche sono modelli che contraddicono le giornaliere fatiche dei docenti, mdei dirigenti scolastici e anche di molti genitori. E sono i sintomi della perdita di senso educativo condiviso, di modi, parole, regole del gioco, limiti da trasmettere. Al contempo, i valori dei genitori, non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati. Il che ha aspetti negativi e anche positivi. Che non possono, però, essere trattati con una bacchetta magica ma, al contrario, richiedono, una ri-negoziazione paziente su cosa serve per crescere oggi e imparare a stare
al mondo. È tutto questo che si riverbera sul «come si sta a scuola», che davvero non è più qualcosa di scontato. E impone alla scuola di farsi luogo pubblico e cantiere aperto per la ri-negoziazione tra adulti e la riscoperta e ricostruzione delle funzioni educative. Così, oggi non è più vero che un docente fa solo x ore di italiano o matematica o inglese e magari tiene tutti buoni con la minaccia del cinque in condotta. Sono balle!
Deve, invece, dedicare enormi, pazienti e sapienti energie a favorire il farsi del gruppo-classe e la motivazione al lavoro di ciascun ragazzo e ragazza, misurandosi ogni giorno con i messaggi differenziati sull’apprendere, sui tempi della vita, sui valori, sulle relazioni con i pari e con gli adulti e con le cose che ogni ragazzo riceve a casa, in giro e sui media. Perché non può richiamarsi a un «dover essere» comune né a un’abitudine alla fatica e alla frustrazione. E fare questo con trenta adolescenti è ben diverso che farlo con ventidue! In generale ci vuole un lavoro davvero sconosciuto alle precedenti generazioni di docenti.
E ci vuole un nuovo carisma – come ha scritto Marco Lodoli. Come coinvolgerli,come ridare regole, come accompagnare le fragilità conservando gli assetti propri di una scuola? E questa «opera educativa» la si deve fare di concerto con le colleghe e i colleghi, imparando a controllare e governare proiezioni, conflitti, differenze. E a proporre soluzioni. Questa è la funzione complessa di «presidio educativo» che oggi la scuola prova ad assumersi. Nel farlo commette inevitabili errori, conosce limiti a sua volta. Con i quali deve per forza misurarsi. Perché l’indomani ci sono i ragazzi. Questa quotidiana fatica la si fa con un decimo dello stipendio di un parlamentare, con il ventesimo almeno di un conduttore tv, con un centesimo di una velina o di un giocatore di serie B. E, soprattutto nel Sud, lo si fa in spazi spesso inaccettabili e senza soldi, spesso neanche per fotocopie
o carta igienica. Questa fatica stenta a capirla chi non si trova dinanzi a un gruppo di ragazzi ogni giorno.
A maggior ragione quando chi sta a scuola viene da famiglie povere – com’è per un quarto quasi dei ragazzi italiani. E troppi «tromboni e soloni » di ogni parte si permettono critiche facili ai docenti italiani.
Ma nonostante tutto, molte scuole hannoavviato spazi di confronto con i genitori, riunioni di sera, patti formativi. Si discute su come arginare il conflitto tra adulti che assolvono ai diversi ruoli educativi, su come mettersi d’accordo su alcune cose minime che dovrebbero accomunare ogni adulto davanti ai ragazzi; e anche di telefonini, ritardi nell’arrivare a scuola, gestione dei quotidiani conflitti, luoghi dove poter dire se si ha bisogno di aiuto…ché sono molte le depressioni, i disagi e gli smottamenti dell’anima e anche le dipendenze e i suicidi. I docenti si accorgono delle sofferenze e ci tengono: I care. E allora che fare? Quanto esserci? Dove finisce la «funzione docente» meccanicamente definita dal contratto
di lavoro e dove inizia quella educativa, senza la quale, sempre più, non si riesce a fare scuola?
Come favorire il rafforzamento delle diverse funzioni di genitori e di docenti senza, però, confusioni?
Come coniugare rigore e accoglienza?
Come ripristinare regole e limiti senza perdere i ragazzi per strada? Come differenziare l’offerta secondo i diversi bisogni? Non sono quesiti astratti. È la vita quotidiana dei docenti italiani.
Si tratta di un cantiere già aperto nel bel mezzo della società italiana, che ci interroga sul senso delle comunità, oggi plurali, ricche, nuove. E della politica. Si tratta, forse, della vera, silenziosa «riforma epocale» della nostra scuola. Così, nella vicenda dei precari, non è solo in gioco il posto di lavoro né quella cattedra dimezzatao quella materia scomparsa.
Ma la tenuta di questo esercito civile adulto. Che andrebbe
sostenuto, aggiornato, rimotivato.
E non dismesso. Il come farlo e come trovare i soldi per farlo è un urgente compito nazionale, di tutti.
L’Unità 08.09.10
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