Il giorno dopo Mirabello e mentre è in pieno svolgimento la festa nazionale democratica a Torino, nel Pd ci si interroga sulle conseguenze del discorso di Gianfranco Fini e sugli scenari che potranno aprirsi di qui a qualche mese, se non a poche settimane. E proprio da Torino è arrivata ieri la richiesta di dimissioni del governo da parte del vicesegretario Enrico Letta: «Berlusconi e Bossi prendano atto che è finita, vengano in aula e aprano la crisi».
Che le parole del presidente della camera abbiano segnato un punto di non ritorno è un giudizio condiviso da tutte le anime del maggior partito di opposizione che Europa ha raccolto. Così come è diffusa la convinzione che la situazione politica possa precipitare da un momento all’altro e il paese rischiare di andare alle urne con l’attuale legge elettorale, che, ricorda Pierluigi Castagnetti, «ha già fallito due volte, nel 2006 e nel 2008; in entrambe le occasioni, infatti, la maggioranza è venuta meno a metà legislatura». «Se prevalesse l’asse Lega-berlusconismo populista – rileva il veltroniano Walter Verini – si rischierebbe di precipitare il paese in una deriva pericolosa mandandolo a votare con una legge elettorale vergognosa. Ma non è detto che automaticamente si debba andare al voto».
Già, andare al voto non è “automatico”. E infatti nel Pd si torna a ragionare sulla possibilità che, una volta certificata la fine di “questo” governo, in parlamento si trovi una maggioranza diversa e ampia per modificare la legge elettorale e varare gli eventuali provvedimenti economici che dovessere rendersi necessari, senza l’illusione che possa aprirsi una grande stagione di riforme istituzionali, magari, ma con l’obiettivo minimo di «porre una soglia ragionevole per il premio di maggioranza e di restituire la sovranità agli elettori », come dice Castagnetti.
Maggioranza «di scopo» per un «governo tecnico» la chiama Verini, che vede di buon occhio «un’alleanza democratica per evitare di andare alle urne con l’attuale legge» piuttosto che un’alleanza democratica elettorale, a suo avviso «velleitaria». Di un «governo di responsabilità nazionale» sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare, per rispondere alle emergenze economico-finanziarie e sociali parla invece Beppe Fioroni: «Come potremmo spiegare agli italiani che facciamo un governo perché dobbiamo scegliere tra il doppio turno alla francese e il proporzionale tedesco o qualcos’altro? Tutto è legato, naturalmente, alle decisioni del Quirinale, ma non riterrei utile la formazione di un “governo degli sconfitti” che si limiti a occuparsi della legge elettorale, dando a Berlusconi l’alibi per dire che chi ha perso le elezioni cambia le regole del gioco per mandarlo a casa».
Convinto che il discorso di Fini abbia segnato un punto di svolta, ma molto problematico circa le prospettive concrete è Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Pd: «Manteniamo la nostra disponibilità a sostenere un esecutivo che cambi la legge elettorale.
Questo presuppone, però, un chiarimento vero e la convergenza di forze disponibili in parlamento. Al senato questa ipotesi mi sembra difficilmente realizzabile».
Quanto al modello elettorale, Migliavacca ricorda che il partito si è già espresso per l’uninominale a doppio turno: «Per noi è la soluzione migliore, al momento si vedrà». Presupposto, per qualsiasi scenario, è che Berlusconi riconosca di non avere più una maggioranza per governare. «Le liturgie della democrazia non possono essere bypassate» chiosa Castagnetti.
da Europa Quotidiano 07.09.10
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“C’è già Pisanu nel dopo-Berlusconi”, di Mario Lavia
La crisi accelera: c’è chi lavora per un governo tecnico con l’obiettivo di cambiare la legge elettorale
Il dado sarà tratto a metà mese. Silvio Berlusconi ha pochi margini per traccheggiare: appena constaterà che a Montecitorio non dispone più di una maggioranza certa salirà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Questo è lo scenario numero uno. Probabilmente, anzi, il solo scenario possibile. Le incognite vere sono sul “dopo”.
Ed è su questo “dopo” che si ragiona in tutti i palazzi della politica. Quirinale compreso. La situazione reale infatti non corrisponde a quella previsione di Napolitano, quando a Venezia parlò di «evoluzione benigna»: si comprende meglio oggi che si trattava di un mero wishful thinking.
Difficile scrutare gli astri del dopo-Berlusconi. Prende corpo – lo si sa con certezza – un’ipotesi che vedrebbe in Beppe Pisanu il protagonista e il punto di riferimento di un’operazione per così dire “tecnica”, volta cioè a mettere in campo un governo per una nuova legge elettorale, ipotesi che piacerebbe a Fini, a Casini, al Pd. Pisanu ha le phisique du rôle giusto per guidare un governo di traghettamento verso il voto: è un uomo tuttora del Pdl ma con un’inquietudine e un’apertura al dialogo che ne fanno certamente un personaggio ben visto dall’attuale opposizione oltre che da pezzi importanti dell’attuale maggioranza. Lui stesso, pochi giorni fa, ha confidato che «se Berlusconi forza la situazione io lo abbandono e altri mi seguirebbero».
L’enigma, come al solito, è la Lega, il soggetto che davvero ha le chiavi della situazione. Secondo alcune voci, il Carroccio potrebbe essere interessato ad una nuova legge elettorale che ripristinasse i collegi o le preferenze, garanzia di una sempre maggiore visibilità e autonomia. Ci sono poi le ipotesi “istituzionali”, un governo Schifani o persino Tremonti: ma sempre di esecutivi di breve durata si tratterebbe e con un programma limitatissimo.
Giacché neppure la Lega vuole trascinarla in lungo: se dicono «voto a dicembre» è per spuntare marzo. Più in là non si va.
D’altronde Bossi l’aveva detto: meglio votare che continuare così. Il Cavaliere, sempre tentennante, alla fine se n’è dovuto rendere conto. Mirabello ha fatto strage delle illusioni. Raccontano che domenica sera è dovuto intervenire Gianni Letta – suadente – per calmarlo. È stato uno di quegli scatti d’ira che collaboratori e sodali ben conoscono, ma più aspro del solito: il premier ha visto nero. Non è che il discorso di Fini lo abbia sorpreso, in fondo se lo aspettava, dopo il duello in diretta tv del 22 aprile, con l’immortale «che fai, mi cacci? » a chiudere la rappresentazione, era impensabile che il presidente della camera, pestato a sangue per tutta l’estate dai giornali «infami», la chiudesse lì. No, Berlusconi sapeva tutto.
È che aspettava l’occasione per scaricare la colpa della rottura tutta intera sulle spalle di Gianfranco. Ora può rompere gli indugi anche lui: la sceneggiata di villa Campari – quando chiese a mani giunte a Bossi di non andare al voto anticipato – è acqua passata. Soprattutto perché da 48 ore la Lega lui non la tiene più.
Perché è evidente che alle orecchie di Bossi quel riferimento finiano al federalismo «che deve convenire al Sud» e soprattutto quell’allusione al «nostro Baldassarri che è determinante nella commissione sul federalismo fiscale» hanno fatto scattare il definitivo campanello d’allarme. E la consueta cena del lunedì ad Arcore ieri si è trasformata in una war room elettorale.
da Europa Quotidiano 07.09.10