Non è cosa semplice vivere da precari, e non solo per via dei soldi che son pochi e del posto di lavoro permanentemente effimero, inaffidabile. Non è semplice muoversi tra persone che parlano di crisi e non la conoscono, parlano di futuro come se fosse una categoria ancora sicura, difendono appartenenze etniche locali nascondendo che dipendiamo dal mondo – e dall’Europa – assai più che da patrie municipali o nazionali. Neppure è molto facile contemplare l’affaccendarsi sfaccendato dei governi, così simile all’ambulare disordinato descritto da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «Non fanno nulla pur essendo sempre in agitazione» (2 Ts 3,11). Tutti questi agitati ambulanti pensano di poter chiudere la parentesi della scarsa crescita e promettono, senza pudore, che presto la parentesi si chiuderà. I precari sono soprattutto giovani, ma non solo: anche nelle età medie capita di entrare in orbite dell’esistenza dove niente si solidifica.
L’Istat constata: un giovane su quattro è senza lavoro, e una gran parte rinuncia a cercarlo. Tre milioni sono precari, sconsideratamente trattati come retroguardia. In realtà sono un’avanguardia, più consapevole di quanto si pensi. La crisi, la traversano da decenni, ne sono la personificazione, e di essa sanno l’essenziale: che non è un intervallo, bensì un’enorme trasformazione.
In primo luogo s’è trasformato il lavoro: che non è il lavoro, il posto, ma resta pur sempre un lavorare. Anzi uno sgobbare: spesso il precario lavora più di chi ha il posto. Spesso è cosciente che il continuo transumare peggiora la qualità del lavoro (la scrittrice Corinne Maier nota: «La pigrizia sarà l’avvenire del precariato»).
In secondo luogo si trasforma la vita in società: al di là della famiglia s’aprono spazi vuoti, fatti di legami cuciti e strappati alla svelta. Infine cambia il rapporto con i governanti. Quando il politico dice che il precario «costa troppo», quando infastidito dalle proteste l’accusa di farsi strumentalizzare politicamente, lo respinge due volte: come persona che lavora e come soggetto politico. Il ministro Gelmini non ha torto, quando dice che il male precede i governi di destra. I sindacati divenuti lobby dei pensionati, la sinistra che si limita ad accertare l’emergenza: ambedue mancano l’appuntamento con la grande mutazione. Ma pur non avendo torto il ministro perpetua il buio, quando solidarizza a distanza con i precari e si rifiuta di incontrarli. Questa distanza è insensata, cieca: di fronte a sé, il ministro ha un mondo di mutanti, non di sciagurati. Davanti non le si accampano vittime, ma i principali attori di un cambio di civiltà. Non le si chiede personale compassione ma fredda conoscenza della crisi, della crescita che non sarà più quella di ieri, della solidarietà comunitaria da reinventare e organizzare.
Per questo è non tanto offensivo quanto inane, denunciare il revival della lotta di classe e del rapporto conflittuale fra padroni, capitale, lavoratori. Il precario sa più cose, oggi, di quelle che sanno i fini conoscitori dei due secoli passati. Il più delle volte non ha un padrone: è vertiginosamente libero, confinato però in terre di nessuno, senza diritti né doveri. Non vive e non lotta come classe. Vorrebbe avere un riconoscimento: che il suo lavorare equivale per dignità al lavoro, e abbia le sue tutele come avviene in tanti Paesi europei. Vorrebbe confutare quando vanno dicendo tanti spiriti apparentemente anticonformisti, secondo cui la Costituzione italiana garantirebbe ipocritamente, nell’articolo 1, una democrazia «fondata sul lavoro».
Chi vorrebbe eliminare quest’articolo, o quello in cui si parla della responsabilità sociale dell’impresa (articolo 41) è indietro nei tempi. A differenza del precario, non sa che il lavorare rimane comunque il centro dell’esistenza individuale, e che quella promessa costituzionale dà continuità a ciò che tende a farsi discontinuo, transeunte. Eliminare l’articolo 1 è come levare, dal preambolo della Costituzione americana, la Giustizia, la Tranquillità interna, il Benessere generale. Cosa si mette al posto delle vecchie parole, magari in nome dell’anticonformismo? Competitività? Consumo? Le Costituzioni sono qualcosa di più di una fotografia dell’esistente e delle sue necessità, anche se incorporano l’esistente e il necessario. Sono state scritte quando non c’erano tranquillità, giustizia, benessere, lavoro per tutti. Il tabù dell’incesto nasce perché c’è incesto, non perché non c’è.
Un’altra cosa che il precario sa è la metamorfosi del tempo: il suo sbriciolarsi, divaricarsi. Entrare nella vita lavorativa, per le generazioni precedenti, era fare futuro. Difficile farlo, se ogni due settimane o due mesi tocca cercare nuove attività. Il tempo breve diventa la stoffa della tua vita e tuttavia con questa stoffa bisogna inventarsi, a meno di non disperare, il tempo lungo di un’esistenza: metter su casa, far figli, credere in quel che fai. Bisogna anche pensare la vecchiaia, che precocemente impaura: cosa farò, non avendo accumulato diritti alla pensione? È uno dei crucci dei giovani che padri e nonni non conoscevano: specialmente forte in Italia. Anche questo sdoppiarsi del tempo (da un lato brevissimo, dall’altro lungo per una vita piena) chiede di esser visto, riconosciuto.
La dialettica padrone-servo cambia nelle forme ma non nella sostanza, ed è il motivo per cui la questione sociale fa ritorno. Ignorarla non l’elimina dal paesaggio ma è una precisa scelta: è criminalizzarla invece di affrontarla, è tramutare lo Stato sociale (un tesoro d’Europa) in Stato penale. Quel che torna è il rigetto dei disadatti, e il loro incollerirsi. È il disprezzo e la sfiducia verso chi lavora in altro modo, e la lotta per il riconoscimento di quest’altro modo. Un riconoscimento non emotivo, ma molto materiale: si tratta di decidere come far funzionare lo Stato sociale nella presente mutazione, come aiutare l’individuo pencolante nel vuoto fra un’attività e l’altra, come raggranellare una pensione futura, come ottenere crediti bancari o affittare un appartamento in assenza di ricchi garanti. Chi dice che l’articolo 1 della Costituzione è sorpassato non sa nulla della crisi. Parla di ipocrisia perché ai suoi occhi il precario ha meno valore: non essendo, il suo, un vero lavorare. Pensa di esser moderno, ma gli occhiali che inforca sono vecchi. Come disse Raymond Aron del presidente Giscard: non sa che la Storia è tragica.
In latino precari è un verbo (vuol dire pregare), e precisamente questo fa il precario nella crisi-trasformazione. Scritto nel 1907, il dizionario etimologico di Pianigiani spiega: precario è quel «che si ottiene per preghiera; si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente». Su questa base non si può costruire alcun nuovo patto sociale. Se il precario è un pregante si aggiungerà ai rifugiati, ai reietti, alle vite di scarto descritte da Zygmunt Bauman: vite relegate in non-luoghi ignari delle leggi, dove non valgono le sentenze dei tribunali ma il ben volere del «concedente».
Chi prega si genuflette: non ancora accettato, è al momento solo un «impiegabile». Non è un cittadino ma un fedele, un penitente, un sottomesso. Considera il datore di lavoro come il padrone-pastore della propria vita pubblica, giuridica, privata. Il padrone-pastore si rifiuta d’incontrarlo, lo ritiene un miscredente, un volubile, in fin dei conti un folle. Nasce così, secondo Foucault, il trattamento della follia nel ’400. I folli e i disadattati, in Germania e poi nel resto d’Europa, venivano imbarcati su un Narrenschiff – stultifera navis – e banditi da borghi e villaggi. Prima o poi la nave dei folli si vendicherà, perché la storia è fatta di queste tragedie, e delle nemesi che rispondono a queste tragedie.
La Stampa 05.09.10