Signor Presidente Sarkozy,
ho la fortuna di beneficiare di due nazionalità. Sono marocchino e francese, dal 1991. E sono felice di quest’appartenenza a due Paesi, due culture, due lingue, che vivo come un permanente arricchimento. Ma dopo le sue dichiarazioni di Grenoble sulla possibile revoca della nazionalità francese ai responsabili di reati gravi, sento la mia nazionalità francese in qualche modo minacciata, o quanto meno resa più fragile. Non che io abbia l’intenzione di darmi alla delinquenza o di turbare gravemente l’ordine pubblico; ma in quelle parole vedo un attacco contro le fondamenta stesse del Paese, contro la sua Costituzione. E ciò, signor presidente, non è ammissibile in una democrazia, in uno Stato di diritto come la Francia, che rimane malgrado tutto il Paese dei diritti umani; un Paese che per tutto il secolo scorso ha accolto e salvato centinaia di migliaia di esiliati politici.
Nel 2004, da ministro dell’Interno, lei dichiarò che “a ogni reato deve corrispondere una risposta ferma, la stessa per chi è o non è francese in base alla sua carta d’identità”. Oggi, in veste di presidente, lei contraddice la sua posizione di ministro. E ciò mi induce a riflettere sulla funzione che lei ricopre, e a intervenire, sia pure tardivamente, nel dibattito pubblico sull’identità nazionale che uno dei suoi ministri ha creduto opportuno di lanciare.
La nazionalità fa parte dell’identità. E come nel mio caso, può essere duplice. Io non riesco a vedermi privato di una delle mie nazionalità. Mi sentirei diminuito.
Nessuna società è di per sé razzista. Dire che la Francia è “un Paese razzista” è stupido e ingiusto.
Sono marocchino e francese. La sua idea di revocare la cittadinanza a chi compie reati gravi per me è una minaccia
Al pari di tanti altri, anche questo Paese è percorso da tendenze all’esclusione e al razzismo, vuoi per motivi ideologici e politici, vuoi per ragioni attinenti al disagio sociale, alla povertà o alla paura. Confondere l’insicurezza con l’immigrazione non è solo un errore, è una colpa.
Il ruolo di un dirigente politico è quello di scoraggiare, e ove necessario di impedire lo sviluppo di siffatte tendenze. Un capo di Stato non dovrebbe reagire con i suoi umori, in maniera viscerale. Non è un cittadino qualsiasi, che può permettersi di dire qualunque cosa gli venga in mente. È tenuto a pesare le parole e a misurarne le possibili conseguenze. La Storia registra ogni sua dichiarazione, buona o cattiva, giusta o inopportuna che sia. E il suo quinquennato, signor presidente, resterà certamente segnato da alcuni dei suoi sconfinamenti verbali. Chiunque ha diritto a reagire a un insulto, ma non un capo di Stato. Non che si sia autorizzati a mancargli di rispetto – ma il presidente della Repubblica deve porsi al disopra del livello di un cittadino medio. È un simbolo, investito di una funzione nobile, eccezionale. Per abitarla, per consolidare quest’ambizione bisogna saper volare alto, e non rimanere invischiati nei fatti fino a dimenticare di essere un cittadino d’eccezione.
Quali che siano i valori, di destra o di sinistra, sostenuti dal partito da cui proviene, il capo dello Stato, in quanto eletto a suffragio universale, dev’essere il presidente di tutti i francesi. Compresi quelli di origine straniera. E anche nel caso in cui la sfortuna abbia spezzato la loro sorte, o li predisponga a una precarietà patogena. Ora, le sue recenti dichiarazioni, peraltro denunciate da un editoriale del New York Times e da personalità autorevoli come Robert Badinter, denotano un cedimento che forse nel 2012 potrà valerle un certo numero di voti del Front National, ma che al tempo stesso la pone in una situazione difficilmente sostenibile.
Signor presidente, comprendo bene quanto il problema della sicurezza la preoccupi. Ma nessuno mai sarà disposto a prendere la difese di un delinquente che abbia sparato su un agente della polizia o della gendarmeria. Spetta alla giustizia dare una “risposta ferma” a questi reati, i cui autori vanno però giudicati indipendentemente dalla loro origine e religione, o dal colore della loro pelle. Altrimenti si cade nell’apartheid. La repressione peraltro non basta. Occorre andare alla radice del male, se si vuole risanare in maniera definitiva la drammatica situazione delle banlieue.
È più facile suscitare la diffidenza, o magari l’odio per lo straniero, che promuovere il rispetto reciproco. Ma un capo di Stato non è un poliziotto d’alto rango. È il magistrato supremo della nazione, il garante della giustizia e dello stato di diritto. E in quanto tale deve essere irreprensibile, sia nei comportamenti che nelle parole. Ora, signor presidente, il suo discorso sulla revoca della nazionalità ai delinquenti di origine straniera che abbiano attentato alla vita di un poliziotto o di un gendarme è ricusato dalla Costituzione. Sono parole al vento – perché come lei ben sa, se una legge del genere fosse votata, la sua applicazione creerebbe più problemi di quanti possa risolverne. Non spettava a lei lanciare questa minaccia.
Signor presidente, lei non ignora certo il contenuto dell’ultimo rapporto dell’Ong “Transparence France”. Ma nel caso che questo testo le fosse sfuggito, citerò una delle sue conclusioni: “La Francia continua a veicolare un’immagine relativamente degradata della sua classe politica e della sua amministrazione pubblica”. Peraltro, per quanto riguarda i livelli di corruzione, la Francia è classificata al 24° posto su 180 Paesi.
La crisi economica non è una scusa. La crisi morale è un fatto. A lei, signor presidente, spetta il compito di ripristinare l’immagine della Francia per quanto ha di più bello, di più invidiabile, di universale: il suo status di Paese dei diritti umani. È il Paese della solidarietà e della fratellanza proclamate, una terra generosa, ricca delle sue differenze, dei suoi colori, delle sue spezie, che tra l’altro dimostra come l’islam sia perfettamente compatibile con la democrazia e la laicità. Perciò la prego, signor presidente, di cancellare dal suo discorso le idee infelici che sono quelle diffuse da un partito di estrema destra, nell’intento di far ripiegare il Paese su se stesso, di isolarlo, di tradire i suoi valori fondamentali.
Voglia credere, signor presidente, all’espressione dei miei migliori sentimenti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La Repubblica 04.09.10