Lo sconforto davanti allo scontro in atto nella maggioranza che ha riflessi sull’intera situazione politica. La preoccupazione per il futuro del Paese ancora alle prese con le difficoltà di una crisi che rischia di travolgere innanzitutto i giovani e il Mezzogiorno, gli anelli deboli della catena. Il fastidio per questo sentirsi continuamente tirare in ballo, da ultimo nell’elaborazione della legge sul “processo breve”, per cercare, da parte di chi lo fa, di sventarne il fallimento già all’orizzonte. Tant’è che i soloni giudiziari del premier stanno già ipotizzando norme sul divieto di acquisizione delle sentenze definitive e la negazione al magistrato di pronunciarsi sul numero di testimoni ammessi ai procedimenti. Espedienti che rivelano, per il solo fatto che vengono studiati, una sensazione di sconfitta prima ancora di ingaggiare la battaglia.
C’è tutto questo dietro le parole dette dal presidente Napolitano, a Venezia in visita privata, che non ha voluto rinunciare a segnalare il profondo disagio di chi ogni giorno legge, lui per primo, tutto e il contrario di tutto. Che assiste ad accese discussioni su leggi che rischiano di finire su un binario morto. Che si sente porre mille interrogativi da chi invece dovrebbe fornire solo risposte. Nette. Precise. Possibilmente utili.
Il “governo del fare” è mancato troppe volte all’appuntamento con la concretezza. Non ha mantenuto gli impegni. Ha dilazionato scadenze che sembravano irrinunciabili. Silvio Berlusconi in questi mesi, troppo preso dai propri problemi, si è dimenticato troppe volte della parola data.
Un rapido sommario. C’è chi si ricorda il gran dibattito che ci fu sul finir dell’inverno sulla legge sul lavoro che sembrava dovesse rivoluzionare i rapporti nelle imprese. L’arbitrato divise le forze politiche e il Paese. Il presidente della Repubblica rinviò la legge alle Camere. Era il 31 marzo. Sono necessarie «più garanzie» disse Napolitano. Immediata fu la reazione. «Faremo rapide modifiche sulla linea indicata dal Quirinale». Quella legge non è stata ancora modificata.
C’è poi la questione del ministro per lo Sviluppo economico. E perché no, anche quella del presidente della Consob. Claudio Scajola ha lasciato il suo incarico il 4 maggio. «Prendo l’interim ma sarà brevissimo» promise il Cavaliere al presidente della Repubblica. E non è stato così. In quella carica si sono andati ad intrecciare gli interessi privati e la crisi con i finiani. Inutili le sollecitazioni arrivate dal Colle che non vuole un ministro purché sia in uno dei dicasteri più delicati in tempi di crisi. Nè vuole che la poltrona vada ad un fedelissimo. Non a caso è stata stoppata la nomina di Paolo Romani.
C’è anche il venir meno all’impegno preso in qualche modo con la legge sul legittimo impedimento, ora al vaglio della Corte Costituzionale che con molta probabilità la boccerà. Quella legge, a carattere temporaneo, entrava in vigore per diciotto mesi in attesa dell’approvazione di una legge costituzionale per prevedere uno scudo alle alte cariche dello Stato. E’ stata approvata, utilizzata ma sulla via costituzionale nulla di fatto. Meglio le soluzioni rapide, a colpi di fiducia. Segno di una incapacità concreta a misurarsi con l’impegno a governare.
L’Unità 02.09.10