Caro direttore,
sono 90 mila le ragazze e i ragazzi che oggi affronteranno i test d’ammissione alle facoltà di Medicina. Novantamila persone, ognuna con la sua storia, con la sua cultura, con la sua sensibilità, con la sua attitudine all’ascolto e alla solidarietà. Qualcuno saprà fin dove Alessandro Magno spinse i confini del suo impero, altri riconosceranno i versi di Pavese, in molti sapranno dire chi era Ippocrate. Ma nessuno sarà in grado di rispondere alla domanda: fare il medico è un mestiere o una missione? Nessuno potrà farlo, semplicemente perché questa domanda non figurerà tra quelle 80 alle quali il medico del 2016 dovrà rispondere in queste ore. A nessuno di loro verrà chiesto, neanche in un colloquio psico-attitudinale, perché vuole fare il medico, com’è nata la sua vocazione. Se c’è.
Credo che una cultura generale sia necessaria per affrontare il mondo, ma per essere medico oltre che per farlo occorre avere dentro anche empatia, senso di responsabilità, capacità di prendersi cura dell’altro, attitudini che nessuna crocetta su un test a risposta multipla potrà rivelare. In tal senso sarebbe invece determinante un incontro dello studente con la commissione, perché l’aspirante futuro medico possa spiegare perché si trova lì.
In assenza di una profonda revisione dei criteri di valutazione e selezione, torneremo invece a commentare, anche quest’anno, le domande improbabili e i quesiti inadeguati a centrare il profilo del medico che ci curerà nei prossimi anni.
Nel metodo, invece, l’applicazione dello sbarramento alle facoltà di Medicina offre un quadro gravemente disomogeneo, ancora una volta molto diverso tra Nord e Sud del Paese, con il punteggio necessario per essere ammessi estremamente variabile da ateneo ad ateneo. Auspicabile sarebbe integrare la valutazione con i voti della maturità o degli ultimi tre anni di media superiore, ma doveroso – oltre che trasparente, rigoroso e, mi permetto di dire, democratico – sarebbe stilare una graduatoria unica nazionale, che consenta ai migliori di scegliere le università migliori.
In sostanza oggi 90 mila ragazze e ragazzi risponderanno alle stesse domande, ma la graduatoria che ne deriverà non sarà unica: ogni ateneo predisporrà la propria classifica e il numero di risposte necessario per l’ammissione sarà determinato dal rapporto tra candidati e posti disponibili in ciascuna sede. Così accadrà che studenti esclusi per poco dalla facoltà in cui hanno sostenuto l’esame abbiano raggiunto il numero di risposte sufficiente per entrare in un’altra sede. E così si verificherà che studenti più meritevoli debbano aspettare un altro anno per riprovare, mentre altri meno capaci inizieranno subito la loro carriera universitaria. Se la classifica fosse invece nazionale, si potrebbe stilare un’unica lista di persone idonee all’ammissione, consentendo loro di scegliere l’Ateneo che preferiscono, con un diritto di priorità determinato dalla posizione in graduatoria.
La cultura del merito coinvolgerebbe anche le Università, in una sana competizione per la maggiore capacità di attrazione, e diverrebbe anche cultura del metodo, producendo benefici effetti sull’impostazione seria, rigorosa, scientifica della futura classe medica italiana. Dopotutto perché non selezionare la nuova generazioni di medici come se dovessimo affidare a loro la nostra salute? E’ una proposta così bizzarra?
* (Chirurgo-Senatore del Pd)
La Stampa 02.09.10