La metà degli oltre 1.700 posti da professore ordinario e associato banditi nelle università statali italiane, che produrranno circa 3.500 idonei, sono solo «teorici», nel senso che non si possono tradurre nel 2010 in assunzioni effettive; se si guarda solo al grado più alto della piramide accademica, quello degli ordinari, i «bandi impossibili» superano addirittura il 60 per cento.
A bloccare la strada verso la cattedra di quasi duemila idonei non saranno però solo i vincoli di bilancio, su cui si è concentrata in questi mesi l’attenzione dei rettori e della politica. Certo, il crollo del 17,2% del fondo ordinario previsto per il 2011, a cui il governo ha promesso però di mettere mano, non facilita la gestione, soprattutto negli atenei che sono meno attivi nella ricerca di fonti alternative di finanziamento, e sono quindi più dipendenti dall’assegno statale. Nel caso dei concorsi, però, il nodo è un altro.
Il problema nasce con il primo decreto Gelmini, quello del novembre 2008, che per frenare la passione degli atenei per i concorsi da ordinario e associato, ha introdotto il sistema delle quote, nel tentativo di favorire l’ingresso di nuovi ricercatori. All’interno delle possibilità “liberate” dal turn over 2008 e 2009 (gli atenei possono dedicare ai nuovi ingressi una spesa pari al 50% delle cessazioni), almeno il 60% delle assunzioni deve riguardare i ricercatori, mentre gli ordinari non possono superare il 10%.
Il tutto è misurato non in termini di persone ma di «punti organico», un meccanismo che pesa il costo di ogni docente in base al proprio ruolo: con questa modalità, un ricercatore vale la metà di un ordinario, mentre un associato vale il 70%. Da qui il problema: le università, nonostante i cofinanziamenti ministeriali per il primo ruolo docente, hanno bandito pochi concorsi da ricercatore, o troppi posti da ordinario e associato, per poter davvero accogliere tutti. A complicare le cose c’è anche un problema di calendario: i tempi dei concorsi universitari sono infiniti, i posti banditi riguardano le sessioni del 2008, e sono quindi in gran parte maturati prima del tentativo “moralizzatore” firmato da Mariastella Gelmini.
Risultato: solo 11 atenei su 57 sono in regola con entrambe le quote, e potrebbero portare fino alla presa in servizio tutti i concorsi banditi (sempre che non intervengano problemi di bilancio), negli altri, invece, il blocco è obbligatorio. I casi limite sono quelli di Catanzaro e Roma Tre, dove le quote obbligatorie introdotte per decreto chiudono la strada a oltre il 92% degli aspiranti ordinari e associati, ma sono una quindicina le università dove almeno otto posti su dieci dovranno fare i conti con il sistema dei vincoli: tra loro ci sono due politecnici su tre (Milano e Torino), e grandi atenei come la Bicocca di Milano e Salerno. Tra quelli senza problemi vanno invece segnalati Venezia, Trieste, La Sapienza di Roma e la Federico II di Napoli.
Attenzione, però, perché i calcoli riportati in tabella rischiano di peccare per ottimismo. Gran parte dei ricercatori, come accennato, sono «cofinanziati» dal ministero, e in questo caso il loro valore in «punti organico» si dimezza; dal momento che le quote per ordinari e associati vanno calcolate in rapporto a questo parametro, il cofinanziamento prosciuga ulteriormente gli spazi per i ruoli «maggiori». Nel calcolo, poi, si suppone che le università abbiano intenzione di sfruttare tutti i punti organico a loro disposizione senza assumere personale tecnico-amministrativo, ma è difficile pensare che nessun ateneo abbia esigenze in proposito.
L’unica via d’uscita, allora, è quella di puntare sulle promozioni degli interni, perché chi fa carriera senza cambiare ateneo costa molto meno in termini di punti organico. Con il risultato, paradossale, che il sistema delle quote finisce per incentivare l’immobilità accademica, cioè proprio la tendenza che intendeva cancellare.
LE REGOLE
Le «quote»
Ogni ateneo può effettuare assunzioni pari al massimo al 50% delle cessazioni intervenute. Almeno il 60% delle assunzioni deve essere dedicato ai ricercatori, mentre gli ordinari non possono superare il 10% del totale
I «punti organico»
Tutti i calcoli vanno effettuati in termini di punti organico, che crescono con la retribuzione del docente: un ordinario vale 1 punto, un associato 0,7 e un ricercatore 0,5 (0,25 se cofinanziato dal ministero)
Il Sole 24 Ore 30.08.10