Mezzo milione di posti di lavoro in bilico. Centinaia di aziende che domani non alzeranno nemmeno la saracinesca. La ripresa è debole e incerta, la domanda langue, i nuovi mercati sono lontani, la produzione resta ferma. È l´Italia imprigionata nella cassa integrazione. La crisi non se n´è andata e parla italiano: Fiat, Indesit, Antonio Merloni, Italtel, Burani, Tirrenia, Unicredit, Omsa, tra gli altri. E parla italiano – perché dipende dalle nostre fragilità ad attrarre gli investimenti esteri – anche quando racconta delle multinazionali che chiudono, come, per ultima, la Pepsi a Silea (un centinaio di dipendenti) nel trevigiano, dove si produce il Gatorade e il Lipton Ice Tea.
Nella mappa della crisi italiana c´è Mirafiori, stabilimento simbolo della grande industria, e ci sono le centinaia di piccole imprese subfornitrici che mollano in silenzio.
C´è un osservatorio privilegiato per leggere questa fase della crisi e la metamorfosi che si sta determinando nel sistema industriale italiano. È quello dell´Unità per le gestione delle vertenze delle imprese in crisi presso il ministero dello Sviluppo economico, guidata dall´ex sindacalista della Fiom Giampietro Castano. Da domani si riprende il lavoro anche lì: quasi 200 tavoli aperti, 4-500 mila posti di lavoro a rischio. Non tutte le vertenze arrivano al ministero. Abbastanza però per capire – come sostiene Castano – che questa parte della crisi è molto “made in Italy”. Nel senso che chi, in questo momento, soffre, fino a chiudere, dipende esclusivamente dal mercato domestico limitato e asfittico. Chi si è internazionalizzato, chi si è spostato sui mercati emergenti, chi sta sulla “filiera tedesca”, invece, sta uscendo dall´apnea. Accade soprattutto nel nord-est, rapidissimo a interpretare il mutamento; mentre il sud si ritrova totalmente avvolto nella crisi. Non solo i casi di Pomigliano, Termini Imerese (1.350 lavoratori). Ma anche il declino del distretto lucano del divano (la Natuzzi con i suoi 1.500 dipendenti). Oppure l´incertezza che segna il futuro del polo aeronautico (Alenia) che a Pomigliano è non lontano dalla Fiat.
A parte il caso Tirrenia, quello di una privatizzazione abortita con circa 3 mila posti a rischio, al ministero si sta ingrossando il dossier delle aziende in crisi del settore dei trasporti, quelle in particolare che producono componenti per il ferroviario: la Firema, in amministrazione controllata da un mese, la Fervet in liquidazione, la Keller che sta chiudendo il sito produttivo in Sicilia senza dare garanzie per quello sardo, la Ferrosud in Basilicata. Quasi duemila posti di lavoro in pericolo ai quali vanno aggiunti quelli dell´indotto.
«L´errore – dice Castano – è quello di aver pensato che esistesse un mercato italiano. Lo si è pensato a proposito della chimica, dell´informatica, delle telecomunicazioni. Ma noi siamo un mercato piccolissimo. E ora dobbiamo gestire la crisi dell´Italtel, azienda di qualità dipendente esclusivamente dalla Telecom, o quella della Sirti». Oppure, ancora, quella della chimica Vinyls (800 lavoratori) di Porto Marghera e Porto Torres.
È una crisi coltivata in Italia pure quella di un pezzo del “made in Italy” con i fallimenti di Mariella Burani (1.500 lavoratori) e della Itierre (con i marchi Ferrè e Cavalli e i suoi 1.500 dipendenti). Tracolli provocati dai debiti con effetti a catena: sono almeno quattromila le aziende fornitrici monocommittenti. Migliaia (fino a seimila) i posti di lavoro che potrebbero saltare.
Nel ricco comasco, Alberto Zappa, segretario provinciale della Fim-Cisl, stima che entro la fine dell´anno possano chiudere una sessantina di piccole aziende metalmeccaniche cancellando almeno 300 posti. Da quelle parti è già fallita la ferriera di Dongo, ora è a rischio anche l´Isotta Fraschini che produce getti meccanici.
E se la crisi è “alimentata” dalle nostre carenze strutturali, tanto più che di politica industriale nemmeno si parla nelle stanze del governo, le ripercussioni saranno serissime nel terziario. «C´è da aspettarsi un forte ridimensionamento nel commercio», dice Paolo Pirani, segretario confederale della Uil. «Molte imprese – aggiunge – non riapriranno».
La Repubblica 29.08.10