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"Sono le aziende a scatenare questa lotta di classe", di Luigina Venturelli

La lotta di classe si fa sempre in due. Sul caso di Melfi non è il caso di discutere chi dei due abbia cominciato, se l’azienda o il sindacato. Mi limito solo ad osservare che, nella sua lunga storia, la Fiat non è mai stata ferma a prendere colpi». Aris Accornero, professore emerito di Sociologia industriale all’Università La Sapienza di Roma, lo può affermare a ragion veduta. Negli anni Cinquanta fu uno dei tanti licenziati per rappresaglia dalla casa automobilistica. Professor Accornero, niente di nuovo, dunque? Siamo alla vecchia lotta di classe?
«Le vicende Fiat degli ultimi mesi ci hanno riportato molto indietro. Marchionne ha fatto una brusca sferzata rispetto ai primi anni della sua amministrazione, quelli della grande ripresa dell’azienda, dovuta anche al tenore decisamente più civile delle relazioni industriali».
Eppure il manager ha invitato i sindacati ad archiviare l’epoca dei conflitti tra operai e padrone. «Se c’è una spinta verso la lotta di classe, in questa fase storica, è proprio quella delle aziende, che stanno facendo scontare ai lavoratori il peso delle ristrutturazioni conseguenti alla crisi. Il lavoro è nei guai rispetto al secolo scorso, la globalizzazione non gli ha fatto bene. L’impresa impone e poi dice ai dipendenti: se così non vi piace, me ne vado da un’altra parte. Di questo passo tra una decina d’anni saremo alle stesse condizioni di lavoro della Cina o di qualche paese africano». Quali sono le alternative?
«Forse sarà la lotta di classe degli operai cinesi a salvarci: le battaglie dei lavoratori si stanno diffondendo anche lì, e diverse conquiste sono già state ottenute, a cominciare da alcune ondate di aumenti salariali».
Marchionne ha proposto un nuovo patto sociale. Si parla molto di partecipazione dei lavoratori alle imprese.
«Appunto. Se ne parla molto, da diversi anni ormai, ma nessuno alza mai un dito. E la colpa non è nemmeno delle aziende o dei sindacati, perchè senza una forte iniziativa politica non si può fare nulla». Quale nuovo sistema di relazioni industriali servirebbe all’Italia?
«Un sistema più articolato, visto che la gran parte della manodopera si è spostata dalla grande alla piccola impresa. Oggi solo il 28% dei lavoratori sta in un’azienda con più di 500 dipendenti, trent’anni fa era il 46%. Per questo non possiamo abbandonare il contratto nazionale, quel che importa è la tutela degli ultimi. Chi dice che il contratto nazionale è morto, crede di vivere in un altro paese, manco fossimo la Germania delle grandi industrie».
Infatti è la grande industria Fiat a chiedere di derogare al contratto nazionale. «Se si vuole implementare l’industria in Italia, si possono anche chiedere sacrifici. Ma le deroghe e le riforme non si fanno con i dicktat, come è successo a Pomigliano. Del resto, che cosa c’entra l’ingiunzione con la partecipazione?».

L’Unità 27.08.10