Duecentomila posti di lavoro che ballano, volendo contare solo le aziende che attraversano crisi «elevate» o «medio alte», 170 vertenze aperte al ministero (vacante ormai dal 4 maggio scorso, giorno delle dimissioni di Claudio Scajola) per lo Sviluppo economico – più quelle che potrebbero aprirsi nelle prossime settimane – una ripresa timida che non è ancora abbastanza omogenea né decisa da permettere di ben sperare in una prossima impennata dell’economia italiana.
È il quadro dell’autunno (caldo? nero?) che si prepara per il sindacato, le aziende e i lavoratori italiani, dipinto in un report steso dallo stesso ministero dello sviluppo. Le regioni più colpite sono il Mezzogiorno e il Nordovest, i settori sono tessile – e di conseguenza moda – meccanica, i cantieri e l’industria aerospaziale. Il panorama non è di quelli incoraggianti: il ministero ha diviso il Paese in sistemi locali del lavoro (aree di comuni contigui nelle quali l’occupazione gravita intorno a un settore): su 686 zone individuate 113 sono in crisi «elevata», 136 in crisi «medio-alta».
Il tessile maglia nera
Il record del settore più colpito dalla crisi tra il 2008 e il 2010 va al tessile, che è anche quello che conta il maggior numero di posti a rischio: circa 11.850. Subito dopo auto, aerospazio e cantieristica dove a rischiare sono in circa 8.700. Perché accanto ai nomi di spicco ci sono anche migliaia di piccole imprese che forniscono le grandi industrie. Pesante anche la situazione degli elettrodomestici, dove i posti in bilico sono ottomila circa.
C’è il caso Merloni, 3.200 dipendenti tra Marche, Umbria e Emilia Romagna. La cassa integrazione va avanti ormai da anni e – spiega la Cgil – «sempre più spesso si registrano ritardi anche nel pagamento di quei 650 euro di cassa. Alla Indesit – sempre nelle Marche – sono invece 500 le persone in apprensione per il loro lavoro. Interrogativi perfino sul prossimo incontro (fissato per il 3 settembre) tra azienda e sindacati. La prima, all’inizio di agosto, ha fatto sapere che lo considera annullato perché i sindacati non hanno sospeso, come avevano promesso il 15 luglio, le azioni di protesta. I lavoratori premono per avere chiarezza sull’investimento da 120 milioni che il gruppo ha messo sul piatto a patto di poter chiudere i due stabilimenti di Brembate (Bergamo) e Refrontolo (Treviso) per trasferire le produzioni negli impianti di Teverola (Caserta) e Fabriano.
La crisi dell’Omsa
Resta in piedi anche la trattativa per Omsa, il marchio di collant che vorrebbe delocalizzare in Serbia (dove già possiede due stabilimenti) le lavorazioni che avevano sede a Faenza.
I 300 dipendenti, quasi tutte donne, avevano siglato un’intesa con la proprietà a metà marzo sperando di aver così scongiurato l’ipotesi di mobilità avanzata dal gruppo a gennaio: si parlava di riconversione della fabbrica italiana e di mantenimento dei posti di lavoro. Nelle scorse settimane il vicesegretario della Filctem Valeria Fedeli ha sottolineato che «la vertenza non è ancora chiusa. La cassa integrazione continua», non si vedono segnali confortanti all’orizzonte e Omsa ha chiuso un accordo con Belgrado.
Il boom della cassa
Il rapporto della Uil sulla cassa integrazione, diffuso ieri, non lascia dubbi. A luglio la cassa è cresciuta del 10% rispetto al mese precedente coinvolgendo circa 670.000 lavoratori. Al Sudl’incremento più alto: +45% addirittura.
Il segretario confederale Gugliemo Loy è preoccupato: «Rispetto a giugno – spiega – è rimasta stabile la cassa ordinaria, ma è sempre alta ed in crescita la cassa straordinaria». Loy conclude amaro: «Questo dato si può leggere in due modi: alcune aziende, terminato il periodo di cassa ordinaria sono passate a quella straordinaria oppure, e sarebbe anche peggio, che alcune crisi sono ormai strutturali». Senza dimenticare i tagli del governo: non è industria, ma la scuola lascerà a piedi 20mila insegnanti precari. Per loro, niente primo giorno di scuola.
La Stampa 24.08.10