C’è una norma costituzionale sullo sfondo di questa crisi politica che incrudelisce giorno dopo giorno. E c’è anche un organo, un potere, un uomo scaraventato suo malgrado nel centro della mischia. L’uomo è Napolitano: dovrà sciogliere le Camere, come reclamano Bossi e Berlusconi se la maggioranza verrà sconfitta in Parlamento? La norma è l’articolo 88, secco e laconico com’era nel costume dei nostri padri fondatori: «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse».
È il potere più importante attribuito al Quirinale, e non a caso viene messo sotto schiaffo in questo tempo di rissa fra i poteri. Dicono che la nuova Costituzione materiale ne abbia svuotato i contenuti: siccome gli italiani votano con un pretendente al trono indicato per nome e cognome sulla scheda elettorale, allora se il monarca cade giù dal trono bisogna farli votare nuovamente, non c’è alternativa allo scioglimento anticipato. Balle: nel 2006 Prodi vinse con questa stessa legge elettorale, e quando due anni dopo inciampò in un voto di sfiducia nessuno s’appellò alla sovranità violata.
Nessuno si strappò le vesti per il mandato esplorativo che Napolitano conferì a Marini. Dopo di che il Presidente sciolse il Parlamento, ma solo perché non aveva incontrato una maggioranza di ricambio.
Evidentemente la Costituzione materiale è come il primo amore: ciascuno ne conserva un’immagine diversa. E allora tanto vale interrogare la Costituzione scritta, lì almeno c’è una faccia che si può ancora guardare. La Carta del 1947 ci racconta in primo luogo che il Presidente non agisce sotto dettatura del governo: in Assemblea costituente venne infatti rigettato l’emendamento Nobile, che vincolava lo scioglimento delle Camere alla proposta del Consiglio dei ministri. Però nemmeno esercita un potere solitario, perché i costituenti respinsero del pari l’emendamento Dominedò, che in tale fattispecie intendeva escludere la controfirma del presidente del Consiglio. Il fatto che lo scioglimento sia controfirmato significa che è la somma di una doppia volontà, di una doppia valutazione: di tipo politico, nel caso del governo; di tipo discrezionale, nel caso del Capo dello Stato. E discrezionale qui non vuol dire scelta arbitraria o capricciosa; vuol dire viceversa che entra in gioco un potere discrezionale nell’accezione usata dai giuristi, ossia come potere libero nei modi ma ancorato a fini prefissati.
Qual è allora lo scopo che la Costituzione assegna al Presidente? Non quello di fare e disfare governi e maggioranze: lui è un organo di garanzia, non d’indirizzo politico. Bensì piuttosto d’evitare la paralisi nell’azione dello Stato, tenendo in piedi un Parlamento ingovernabile. In altre parole (e salvo casi eccezionali), il Presidente ha un ruolo da notaio, ma sono le forze politiche a decidere di stipulare il rogito. Ecco perché gli undici scioglimenti anticipati che abbiamo fin qui sperimentato suonano in realtà come altrettanti autoscioglimenti delle Camere: o perché i partiti non riuscivano a esprimere una maggioranza di governo, o perché c’era una maggioranza favorevole al voto. E del resto, quale sarebbe mai l’alternativa? Se il Presidente potesse fare un po’ come gli pare, allora avrebbe anche il potere di sciogliere le Camere un minuto dopo le elezioni, se il risultato elettorale non gli aggrada. Ma almeno questo, Berlusconi non l’ha ancora domandato al nostro Capo dello Stato. Magari lo farà domani, se l’urna gli regalerà qualche brutta sorpresa.
La Stampa 23.08.10