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“La pericolosa disperazione dell’antipolitica“

Nei giorni scorsi un lettore del Sole 24 Ore che dichiara di versare al fisco 900mila euro di Irpef ha scritto al giornale una lettera sconsolata nella quale confessa di essere fortemente tentato di evadere le tasse in quanto, spiega, continua a dare soldi allo Stato senza avere in cambio servizi efficienti né una Pubblica amministrazione che funzioni.

Al cittadino deluso risponde il ministro dell’Ecnomia Tommaso Padoa Schioppa con una lettera al giornale che riportiamo qui di seguito.
Caro direttore, mi rivolgo all’autore della sconsolata lettera («Pago 900mila euro di Irpef ma so che saranno buttati») che il Suo giornale ha pubblicato ieri. L’autore è un cittadino esemplare: «non mi è mai pesato pagare le tasse»; «lavoro in effetti moltissimo: mi sveglio alle 4,45 ogni mattina»; «non lavoro per i soldi»; «uno stile di vita morigerato»; «mi impegno al massimo e cerco di trattare con la stessa attenzione sia le pratiche piccolissime che quelle ingenti».

Esemplare, e con gli occhi bene aperti. Occhi che vedono (cito dal la sua lettera) quintalate di denaro nero, porcherie, uffici pubblici che non funzionano, gravissimi sperperi di denaro pubblico, scuola che non insegna, politici di un livello umano sotto qualsiasi soglia minima, liste d’attesa da terzo mondo, ragazzi che scrivono la tesi senza sapere l’italiano, sporcizia in ogni angolo, fannulloni che ingrassano, treni indecenti, inciviltà a ogni passo, tribunali che non funzionano. Non Le scrivo per indurre l’anonimo autore a insistere nella sua condotta esemplare. Non ce n’è bisogno. Sono convinto che insisterà comunque, perché essa è tutt’uno con la sua persona, è fondata sul rispetto di se stesso e di coloro che egli stima e che lo stimano, non sulla convenienza. Vorrei invece spiegare che cosa non condivido della sua diagnosi e che cosa penso di quel suo dichiararsi «senza soluzioni». Non condivido che la linea divisoria tra il bene e il male sia tracciata in modo da coincidere con quella che separa il «privato» dal «pubblico». Una lettera identica avrebbe potuto scriverla un insegnante che si ostina a fare scuola con raddoppiato impegno proprio perché «la scuola non insegna»; un universitario che non ha mai smesso di fare ricerca, che per gli studenti c’è sempre e che non ha mai avuto altro reddito che lo stipendio di professore; un magistrato o un poliziotto assiduo nel servizio e che spesso rischia la vita per combattere il crimine; un funzionario che si rende disponibile al pubblico anche in supplenza del collega «fannullone»; un parlamentare che non manca una seduta in Commissione o in Aula e vi si presenta dopo essersi accuratamente documentato. Ce ne sono, ce ne sono molte di queste persone. E, d’altra parte, furbi e profittatori ce ne sono in tutte le professioni, in tutte le attività umane. L’autore della lettera non ha bisogno di uscire dall’ambito della sua professione per accorgersene. Egli sa bene di quanto il suo versamento all’Irpef potrebbe ridursi se nessun professionista evadesse il Fisco. Immagino bene quanta pena gli provochi appartenere, lui contribuente irreprensibile, a una categoria professionale che troppo spesso è giudicata in blocco come quella degli evasori; a quanti potenziali clienti, amici del “denaro nero”, abbia dovuto rinunciare per non rendersi complice di comportamenti illegali. La mia diagnosi è meno semplice e più inquietante. Ciò che dobbiamo sottoporre a vaglio critico è proprio la convinzione che il «pubblico» sia, quasi per costituzione, malato e che il «privato» sia, quasi per costituzione, sano. È una convinzione antica, che si è radicata e diffusa nel costume e nella società italiana attraverso molte generazioni, per circostanze storiche e culturali che ben conosciamo. Ebbene, proprio questa convinzione, che la stessa lettera di ieri riflette tanto vividamente, è all’origine di una parte non piccola delle disfunzioni e delle patologie che la lettera stessa denuncia. Ciò che l’autore descrive con tanta crudezza lo vede ognuno di noi. Ma come negare che in una società dove sono liberi di esprimersi col voto e di partecipare attivamente alla politica siano i cittadini stessi, la società stessa responsabili ultimi delle disfunzioni della politica? Se in parte è vero che disfunzioni, comportamenti reprensibili, irresponsabilità sono più diffusi nella sfera pubblica che in quella privata è proprio perché il nostro impegno, la nostra tensione etica, la nostra fiducia sono diversi nei due campi. Facciamo coincidere il confine tra pubblico e privato con quello che separa ciò di cui ci sentiamo autori da ciò di cui rendiamo responsabile una mitica entità esterna che chiamiamo «politica» o «pubblica». Il nostro pregiudizio antipolitico finisce per essere inverato dal modo stesso in cui ci atteggiamo di fronte alla cosa pubblica. Se sono atteggiamenti radicati nella storia italiana dobbiamo perciò considerarli mali cronici senza rimedio né sollievo? No, perché lungo quella stessa storia troviamo momenti alti e momenti bassi, governi migliori e peggiori, leggi buone e altre cattive, istituzioni che operano efficacemente e altre che mancano il loro scopo. È dunque possibile, almeno, sforzarsi di contribuire a qualche miglioramento. È possibile e vale la pena. La seria difficoltà in cui ci troviamo nell’affrontare il mondo di oggi nasce dal modo in cui la società italiana si pone nei confronti della politica forse più ancora che dal modo in cui questa si pone nei confronti della società. Non dimentichiamo che in molti momenti della storia repubblicana, la politica è stata più coraggiosa e lungimirante della società: nell’aprire mercati, nel difendere la democrazia, nel partecipare all’Europa. Dubito si possa veramente dire che il mondo della politica in Italia versi in condizioni peggiori di altri, come l’economia, la cultura, il sindacato, la magistratura, la comunicazione. Mondi nei quali si annidano le tenaci resistenze al cambiamento e i privilegi contro cui si rimprovera alla politica di non agire con sufficiente determinazione. Certo, sulla politica tende a convergere tutta l’insoddisfazione degli italiani; certo, senza un decisivo contributo della politica l’Italia non uscirà dal malessere in cui si dibatte. Certo, verso la politica si deve essere molto più esigenti e severi di quanto spesso si sia; e si può esserlo soprattutto quando si è buoni cittadini e contribuenti onesti. Ma nel nome di una migliore politica e nell’impegno per essa, non cadendo nella pericolosa disperazione dell’antipolitica.

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