Ci sono due modi di pensare alla Sardegna. Il primo: che è un posto stupendo, peccato che ci siano i turisti. Il secondo: che è un posto stupendo, peccato che ci siano i sardi. Poi c´è un terzo modo, che va trovato di volta in volta, specialmente in agosto. Ieri il problema si è posto più urgentemente, perché la Sardegna dei turisti e la Sardegna dei sardi, per di più pastori, si sono fronteggiate sul campo, anzi sulla pista dell´aeroporto di Olbia-Costa Smeralda.
Altri sapranno discutere, con la cognizione di causa che a me purtroppo manca, del rapporto fra una protesta giusta e un modo che danneggia persone malcapitate. (Benché in questa circostanza leggere del “calvario dei passeggeri costretti ad avviarsi a piedi per trecento metri allo scalo” e dei “disagi creati ai vip in arrivo su jet privati” una qualche inconfessabile soddisfazione la dia. E che “i pastori si sono concessi anche di giocare a morra, tra le proteste dei passeggeri imbufaliti” – sia detto da passeggero). Sta di fatto che l´argomento addotto da chi sceglie queste forme di lotta – “è l´unico modo per far sì che si parli di noi” – non è mai stato così fondato. Fino a ieri chi aveva sentito parlare del “Movimento dei pastori sardi”? Più o meno nessuno, per due ragioni essenziali, perché sono sardi, e perché sono allevatori di ovini. Ora i pastori sardi, come hanno confermato ieri, sanno usare campanacci e fischi con l´indice e il mignolo in bocca da far invidia a un milione di vuvuzelas, ma finora non si era sentito niente, perché l´orrendo rumore delle quote latte copriva tutto. Eppure prima di ieri avevano occupato l´aeroporto di Cagliari (come gli operai dell´Eurallumina, del resto, non pervenuti) e la superstrada Carlo Felice, e niente. Qualcuno ieri, “nel continente”, leggeva la notizia e commentava: “Mille o duemila pastori, ti rendi conto?” Così siamo andati a cercare su YouTube, e abbiamo trovato i filmati dei mille pastori del Movimento che erano andati a dimostrare a Bruxelles, il 13 novembre del 1996. Avete letto bene, 1996, quattordici anni fa. Vedete com´è lungo il viaggio che atterra alla Costa Smeralda.
Agli occhi e al cuore degli altri, quelli che non sono sardi, la Sardegna di oggi evoca simboli di una forza travolgente. Uno per tutti, gli operai della Vinyls che dal 24 febbraio vivono nelle celle del carcere di massima sicurezza smesso dell´Asinara, isola dell´isola. L´episodio di ieri ha messo i profani del continente davanti a un Incontro dei Due Mondi, cui per giunta le circostanze – un politico sardista che morde la mano di una signora forestiera, la signora che lo schiaffeggia, e poi “tra le vittime della protesta anche una principessa araba” – hanno dato una pittoresca coloritura di genere, i maschi pastori patriarcali e le impazienti signore turiste. Nel repertorio degli italiani del continente che mangiano il pecorino romano e si figurano che sia romano (è sardo) e il pecorino di Pienza e delle Crete senesi immaginando che sia toscano (è fatto per lo più dai pastori sardi in Toscana), i pastori riguardano il presepio, la transumanza dannunziana dall´Abruzzo al Tavoliere, e il meraviglioso Canto notturno di un pastore errante dell´Asia alla Luna. Ora è vero che i pastori in genere (dove non sono stati sostituiti da senegalesi e sikh e macedoni albanesi e nordafricani) e i pastori sardi in particolare sanno meglio conservare una sapienza e una solitudine antica, ma l´idea scolastica che continuiamo a farcene dev´essere molto aggiornata. Quanto a me, ho un vecchio amico pastore che si chiama Angelo Vacca, che ha 270 pecore e a ciascuna ha dato un nome e le chiama tutte, una per una: è così che si riconosce quella smarrita. Però, il “mito romantico dell´uomo solo fra cielo e terra”, deve combinarsi con le cooperative e il Movimento e la sua bandiera azzurra e le sue manifestazioni di migliaia. A quel mito è bello restare affezionati, ma con giudizio. Michela Murgia, scrivendo lo scorso aprile di quel mito romantico, spiegava che “solo nell´ultimo anno la popolazione ovina sarda è diminuita di quattrocentomila capi, e gli allevatori oppressi dai debiti hanno dovuto razionare il mangime alle pecore rimaste, con la consapevolezza che ogni chilo di peso perso significa cinque litri di latte in meno. Potrebbe sembrare consequenziale che i giovani sardi abbiano smesso da decenni di voler fare i pastori… Ma non può sparire da un giorno all´altro una cultura produttiva che gestisce quasi tre milioni di pecore, due per abitante, con un fatturato annuale che rappresenta un quarto dell´economia sarda. C´è stato un momento nella storia della Sardegna pastorale in cui si è consumato il passaggio di senso tra ‘l´essere pastori´, che era un modo di percepirsi al mondo, e il ‘fare il pastore´, un mestiere come un altro, ma più di altri duro e incerto”. Nel sud della Sardegna, scriveva, tanti giovani pastori sono immigrati, tutti regolari e integrati come in nessun´altra regione.
Non sono più quelli di una volta, i pastori sardi. Neanche le signore turiste, direi.
La Repubblica 14.03.10
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