Nel ddl Gelmini passato al Senato c´è un emendamento che prevede il 30% di docenti stranieri nella commissione che dovrà decidere il peso dei lavori di ogni ateneo. Il sapere si scontra col potere; il potere plasma il sapere; e lo stesso sapere veicola in sé varie forme di potere. Nulla di nuovo, certo; ma il tema sta tornando prepotentemente alla ribalta sotto la rubrica “valutazione della ricerca scientifica”, all´ordine del giorno sia per l´inizio di un nuovo ciclo di valutazione nazionale (2004-2008) ad opera del Civr (un comitato ministeriale), sia per l´istituzione di un´Agenzia nazionale di valutazione (Anvur) che sostituisce il Civr con poteri e finalità più estese, sia infine per il ruolo che la riforma universitaria attribuisce alla valutazione, in termini di finanziamento degli Atenei, dei progetti di ricerca e perfino di retribuzione dei docenti.
Di valutazione del sistema universitario (e anche della ricerca) c´è bisogno. Lo richiedono i giovani e le famiglie, per capire in quale Ateneo e in quale Facoltà intraprendere gli studi universitari; lo richiedono le Università più avvertite, che da tempo valutano sistematicamente il proprio patrimonio di ricerca; e lo richiede il potere politico, anche al di là degli intenti punitivi che animano questo governo, e dei ritardi (solo nel luglio 2009) con cui ha utilizzato a un modesto scopo premiale i risultati della valutazione 2001-2003: la valutazione della ricerca è infatti il presupposto conoscitivo di ogni politica della ricerca.
Ma pone parecchi problemi. Il primo è appunto il rapporto fra sapere e potere, fra autonomia della scienza e controllo (o indirizzo) pubblico-politico dei suoi percorsi e dei suoi risultati. Una questione delicatissima, poiché è vero che una scienza asservita è una mortificazione della libertà di tutti; ma è anche vero che in una democrazia pluralistica avanzata – lontana dalle brutali imposizioni delle dittature – il potere politico ha qualche diritto di conoscere come il pubblico denaro viene impiegato, e con quale utilità, da coloro che per mestiere dovrebbero fare avanzare la scienza, oltre che trasmetterne i risultati. E infatti, per fare un esempio, in Inghilterra un esercizio di valutazione della ricerca è stato introdotto ormai da anni, e modificato in itinere.
Ma anche se si escludono interventi autoritari diretti, i pericoli abbondano. I professori (soprattutto quelli di discipline umanistiche) sono stati, in genere, restii a essere giudicati: accanto a motivazioni poco nobili, c´è il problema, reale, di definire che cosa sia la ricerca e chi la debba valutare, e come (cioè secondo quali parametri e a quali finalità). In effetti, se si trattasse di affermare che il libro del prof. A è meglio (o peggio) del libro del prof. B, ci si troverebbe in qualche imbarazzo: tranne casi eclatanti, solo una giuria di esperti – disponibili, autorevoli e non faziosi – potrebbe dirlo, argomentando lungamente e con margini di dubbio e d´incertezza. E´, questo, il sistema della peer review, adottato nella valutazione 2001-2003 (che riguardava un numero relativamente esiguo di “prodotti della ricerca”). Ma accanto a questo ne è in funzione, da anni, un altro, più adatto alla valutazione di massa (qual è quella che verrà introdotta in Italia), basato su indicatori bibliometrici (il più semplice dei quali è l´Impact Factor) e pensato soprattutto per il mondo delle scienze naturali. Si tratta di misurare quantitativamente il prestigio e la diffusione delle riviste che pubblicano gli articoli dei ricercatori, e di costruire una graduatoria fra di esse sulla base del numero di citazioni che ricevono. Si determina per questa via non tanto il valore qualitativo di un singolo articolo, quanto piuttosto l´influenza che esso esercita nella comunità scientifica grazie al “veicolo”, alla rivista che lo diffonde: quanto più questa è prestigiosa, tanti più studiosi leggeranno gli articoli che pubblica.
Le riviste con un alto Impact Factor si dotano di un complesso sistema di referaggio, che riproduce il procedimento di peer review, con i suoi pregi e i suoi difetti. Tra i quali va messa la quasi inevitabile tendenza dei revisori a promuovere alcune linee di pensiero o di ricerca – certo, le più autorevoli e consolidate (mainstream) – e a scoraggiarne altre. Ed ecco che proprio dall´interno della scienza rispuntano possibili censure, o almeno pressioni e orientamenti che fanno sì che la ricerca e il sapere siano esposti, come minimo, al potere che da essi stessi promana. Si dirà che questi condizionamenti esistevano anche prima che si parlasse di valutazione; ed è vero. Ma la valutazione li enfatizzerà, e spingerà gli studiosi a pubblicare fin troppo, e a cercare di scrivere su riviste prestigiose e diffuse anche al prezzo di sacrificare qualche idea troppo originale.
Se a ciò si aggiunge che i data base sui quali si costruiscono le graduatorie fra le riviste sono prodotti da istituzioni private, si vedrà che la valutazione è tutt´altro che neutra o oggettiva, e che resta un terreno minato, pur con tutti i sofisticatissimi accorgimenti che possono essere introdotti (ne parla Alberto Baccini in Valutare la ricerca scientifica, il Mulino), compresa la presenza, fra i valutatori, di studiosi stranieri (come è accaduto nel ddl Gelmini al Senato, dove la quota stabilita nella commissione è del 30%). Per le discipline umanistiche, poi – che di solito non si servono di una lingua universale come l´inglese, e che hanno ambiti di ricerca e di diffusione più legati, anche se non esclusivamente, a tradizioni nazionali – , molto lavoro resta ancora da fare per costruire sistemi bibliometrici accettati dalle comunità degli studiosi (che il tipico prodotto della ricerca sia un libro, e non un articolo, rende le cose ancora più complicate).
Eppure, pur con i suoi insuperabili (ma controllabili) limiti interni e con le sue inevitabili approssimazioni, la valutazione della ricerca è ormai una realtà con cui tutti si preparano a misurarsi, che cambierà lo stile di lavoro di studiosi, riviste, case editrici. Potrà essere un alibi perché tutto resti com´è, un adempimento solo formale, ma assai costoso in termini di tempo e di organizzazione; oppure potrà essere il veicolo di un controllo capillare sulla ricerca, che ne determina stili e obiettivi in sintonia con le richieste dei poteri politici e sociali; ma potrà anche essere un´occasione perché i professori producano liberamente ricerca (com´è loro diritto e dovere), perché l´opinione pubblica sia informata sull´efficienza scientifica del sistema universitario e non solo sulle vere o presunte malefatte dei “baroni”, e perché la politica possa conoscere quali realtà sostenere e quali invece lasciare al loro destino. Portare un po´ di trasparenza (e di differenziazione) nell´Università, con le dovute maniere, non è poi un male. Dopo, forse, non ci saranno più alibi. Per nessuno.
La Repubblica 05.08.10