Finalmente la singolare protesta in atto in molte Università italiane è uscita dalle «mura» degli Atenei e ha cominciato a prendere posto nel dibattito pubblico. Come molti colleghi, anch’io ho dolorosamente scelto di non insegnare il prossimo anno accademico e vorrei condividere le mie motivazioni che, credo, siano quelle di molti. Da oltre 12 anni insegno analisi matematica nelle Facoltà scientifiche dell’Università di Padova. Ho insegnato a Matematica, Fisica, Ingegneria e Informatica, inizialmente svolgendo esercitazioni nei corsi e successivamente assumendomi la responsabilità di corsi interi. Ho insegnato e sono tutore per gli studenti della Scuola Galileiana, la “Normale” di Padova, la scuola di eccellenza che ogni anno vede qualche centinaio di giovani concorrere per 24 posti tra discipline umanistiche e discipline scientifiche. L’insegnamento all’Università è parte integrante dell’attività di ricerca. Anzitutto nei corsi più avanzati, dove si insegnano tematiche di ricerca e si avviano i giovani più promettenti a questa difficile attività professionale. Ma anche nei corsi di base, perché sono il primo impatto con uno studio che richiede un rigore ed un approfondimento straordinari. Perché il metodo scientifico richiede rigore e precisione, richiede che ogni tesi sia sostenuta da argomentazioni razionali. Ogni anno si ha una gratificazione immensa nel conoscere nuovi giovani che sono curiosi, motivati e appassionati in quello che fanno. E a noi tocca il delicato compito di orientare quest’energia, stimolarla, farla crescere, trasformarla in creatività scientifica. Non c’è una ricetta, c’è tanta passione che molti ricercatori e professori mettono in questo lavoro, spesso denigrato dalla faciloneria qualunquista di chi pensa che dispensiamo solo titoli di studio. Arriva poi un giorno, arriva sempre. Arriva poi il giorno che un giovane in gamba ti chiede: «Io vorrei continuare a studiare, fare il dottorato, fare ricerca nella vita; mi può dire quali prospettive ci sono?». Conoscendo la situazione, si entra in conflitto tra l’amore per il proprio Paese e le aspettative dei nostri giovani migliori. Vorresti poter dire che le opportunità da noi ci sono. Ma se sei onesto con te stesso e con la persona che hai di fronte sai che non puoi rispondere così. Perché, ad oggi, questa è la verità. E non è dettata da un assunto politico o da una ragione teorica. La realtà è quella che conosci per l’aver visto che fine hanno fatto i migliori studenti dopo 10 anni dalla loro Laurea. Qualcuno ha scommesso sul cavallo giusto, è andato all’estero, chi in Francia, chi in Inghilterra, chi negli Stati Uniti. Nelle migliori Università, giacché la qualità della nostra formazione universitaria all’estero è riconosciuta. E queste persone lo dimostrano. Qualcun altro ha scommesso sul cavallo sbagliato: restare in Italia. Ha fatto il dottorato (3 anni), poi una borsa post-dottorato (2 anni), poi magari un assegno di ricerca (2+2anni). Nel frattempo ha pubblicato, magari su riviste internazionali, magari anche ricerche importanti, citate da altri, riconosciute. Eppure, passata una decina di anni dalla Laurea, il Paese non è stato in grado di riconoscere la qualità di questa persona. E allora, per onestà, ho cominciato a dire: «Vai via! Vai all’estero!». A tutti. Non sono contento di questa scelta. Ma trovo moralmente disonesto illudere un giovane. M’immedesimo in lui/lei perché anch’io ci sono passato, e non lo trovo giusto. In questo periodo ricevo ogni giorno qualche mail da un ex studente/ssa che ora vive e lavora all’estero, che a suo tempo ha fatto la scelta di andarsene. Così come vedo di tanto in tanto giovani promettenti che hanno fatto la scelta sbagliata, rimanendo in Italia. Lascio al lettore immaginare le mie emozioni di gioia e di tristezza. Noi protestiamo, e credo di interpretare un comune sentire, perché vogliamo un Paese che sappia valorizzare i suoi figli migliori, non uno che li illuda, come sta facendo il Governo con la riforma Gelmini.
*Università di Padova
L’Unità 25.07.10