Dopo due anni di colpevole silenzio, il governo Berlusconi si è infine accorto che in Italia esiste un «problema Fiat». Il presidente del Consiglio l´ha scoperto a modo suo, affermando un principio banale e formulando un auspicio irreale. «In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare la produzione dove meglio crede, ma mi auguro che questo non accada a scapito dell´Italia e degli addetti italiani ai quali la Fiat offre lavoro». La banalità è nella ripetizione di un magnifico mantra liberale, che in Italia ha purtroppo scarso diritto di cittadinanza, visto il modello spurio in cui si mescolano capitalismo di relazione e affarismo politico, familismo amorale e finta «economia sociale di mercato».
L´irrealtà è nella sottovalutazione di un fatto già evidente a tutti: da mesi, ormai, la metamorfosi della Fiat avviene «a scapito» dell´Italia e dei lavoratori italiani. Una comprensione così tardiva di un fenomeno industriale e occupazionale tanto importante da la misura esatta dell´afasia politica di questo governo. E a negarla non basta la «convocazione» dell´azienda e dei sindacati, fissata dal ministro del Welfare mercoledì 28 luglio a Torino. È il solito «italian job», che fa chic e non impegna: quando hai un problema, basta aprire un «tavolo», e hai fatto la tua figura. Peccato che stavolta le cose non siano così facili. Per nessuno dei tre soggetti che vi si sederanno intorno.
IL primo soggetto è la Fiat. Non sarà facile per l´azienda. La sua strada è segnata. Per i prossimi due anni ha in cantiere solo la Nuova Giulietta e il nuovo motore TwinAir. Perde quote di mercato in Europa (dal 9,1 all´8,2%) e in Italia (dal 33,5 al 31%). È inutile continuare ad illudersi, a parlare a sproposito di «italianità», o addirittura di «torinesità», rievocando i bei tempi di Valletta e dell´Avvocato. Quello era, semplicemente, un altro mondo. La nuova «Fiat auto» è un gruppo multinazionale (ormai scorporato dalla vecchia «Fiat dell´industria») nel cui destino c´è con ogni probabilità l´ingresso di nuovi grandi partner globali e la fusione con la Chrysler. Ed è altrettanto inutile continuare a fare appello a John Elkann: il via libera allo «spin off» è una resa della famiglia Agnelli, che rinuncia a giocare in proprio la partita dell´auto.
A dispetto dei piani e delle promesse, l´Italia è un mercato, ma non necessariamente una produzione. Costa troppo, in tutti i sensi: manodopera, infrastrutture, fisco. E rende poco: numero di veicoli prodotti, utili per singola automobile, reti di vendita. In Italia la Fiat produce 650 mila vetture l´anno con 22 mila operai, in Polonia 600 mila con 6.100 operai, in Brasile 730 mila con 9.400 operai. Questi sono i numeri. E con questi numeri perché mai Sergio Marchionne, «l´Oracolo dell´auto» come lo definisce enfaticamente il “Financial Times”, dovrebbe «morire» per Pomigliano o addirittura per Mirafiori? Preferisce andarsene a Kragujevac, e sfornare lì la nuova monovolume.
E a chi prova a dargli torto, può opporre a sua volta qualche numero: su un investimento di un miliardo di euro, 650 milioni li metteranno il governo serbo e la Bei, con in più un´esenzione fiscale di dieci anni e un contributo di 10 mila euro per ogni nuovo assunto, la cui paga base sarà di circa 400 euro. Perché, a queste condizioni, non dovrebbe andare in Serbia? Per una difesa dell´«interesse nazionale»? Marchionne è svizzero-canadese, ormai vive più a Auburn Hills che al Lingotto: l´unica cosa che conta è il posizionamento del gruppo nella sfida globale. Oppure per una «responsabilità sociale dell´impresa»? Marchionne non è Adriano Olivetti: oggi l´unica cosa che conta, secondo il gergo della modernità, è «creare valore» per gli azionisti.
Il secondo soggetto sono i sindacati. Non sarà facile non tanto per la Fiom, quanto piuttosto per la Cisl e la Uil, clamorosamente spiazzate dall´«editto serbo» dell´azienda. Bonanni e Angeletti si erano affrettati con solerzia politicamente gregaria a battezzare il «lodo Pomigliano» come un «accordo storico». Sul piatto dei 700 milioni di investimenti offerti dalla Fiat avevano sacrificato una quota non trascurabile di diritti reali dei lavoratori, nell´illusoria convinzione che quel «modello contrattuale» sarebbe stato unico e non ripetibile in nessun altro luogo di lavoro. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che Pomigliano è stata l´epifania di una nuova era delle relazioni industriali. E che una «eccezione», quando sono in gioco diritti costituzionali, non conferma la regola, la distrugge.
Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che tra le parti tutto si può negoziare, orari e salari, ma non i diritti, appunto, trasformati in «merce fungibile» e scambiabile con la sopravvivenza dell´azienda. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che nel mondo globale della competizione tra diseguali il modello da difendere è il «contratto sociale» sottoscritto dall´Occidente, e non il dumping sociale imposto dai Paesi emergenti. Ora balbettano, disorientati dagli annunci e dalle scelte dell´azienda, che legittimamente difende i suoi interessi, nella convinzione di «dettare la linea sulla cultura del lavoro», come titolava l´”Herald Tribune” di ieri.
Il terzo soggetto è il governo. Il suo compito sarà ancora meno facile. Per affrontare insieme all´azienda e ai sindacati il «problema Fiat», con la ragionevole certezza di tirar fuori una soluzione, bisognerebbe avere qualcosa da mettere sul tavolo. In questo momento, come da due anni a questa parte, Berlusconi non ha nulla da offrire. Qui non si parla di incentivi e di rottamazioni, che sono solo il metadone somministrato a un malato assuefatto. Qui si parla di politiche industriali e fiscali. Si parla di investimenti sulla ricerca e sulla riqualificazione delle risorse umane. Si parla di reti di trasporto e di energia. Si parla di riforme contrattuali concertate e condivise. Si parla, in altri termini, di Sistema-Paese, cioè un tema sul quale questo governo non ha e non ha mai avuto nulla da dire né da proporre.
Il massimo che Berlusconi ha «inventato» in questi anni, sulla Fiat, sono state le battute imbarazzanti su Gianni Agnelli a Melfi («è un mio mito, tengo la sua fotografia sul comodino») e le spacconate umilianti con Fresco e Galateri ad Arcore («Datela a me, saprei io come risanare la Fiat»). Il massimo che i suoi ministri hanno inventato in queste settimane, su Pomigliano, è stata la celebrazione ideologica e irresponsabile di un «trionfo misero», consumato attraverso il regolamento di conti con la Cgil. Senza nessuna visione dell´interesse generale. Senza nessun progetto sul declino industriale.
C´è voluto il Capo dello Stato, per ricordare al premier che il ministero dello Sviluppo Economico è sede vacante da tre mesi, e la presidenza della Consob lo è da tre settimane. Quanto ci vorrà perché Berlusconi capisca che il futuro dell´industria dell´auto (come di tutto quel che resta della grande industria del Paese) è una enorme «questione nazionale»? Negli Stati Uniti dei destini di Gm, Ford e Chrysler si è occupato Obama in persona alla Casa Bianca. In Italia del destino della Fiat si occuperà Sacconi alla Regione Piemonte. Con tutto il rispetto, non è la stessa cosa.
La Repubblica 24.07.10
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“La strana morale del signor Marchionne”, di Luciano Muhlbauer
La Fiat dica che ha rinunciato a produrre la nuova monovolume a Mirafiori perché i sindacati sono “poco seri” e c’è stato il “problema” di Pomigliano. Ma è una bugia, gli accordi con il governo serbo sono precedenti e si iscrivono nella logica del ricatto sociale della globalizzazione: la produzione si sposta dove costa poco, e gli operai sono costretti ad adeguarsi alle condizioni sempre peggiori. Situazione che l’azienda di Torino sta sfruttando
A me avevano insegnato che le bugie non si dicono. Il signore Marchionne, invece, di bugie ne dice parecchie. L’ultima suona più o meno così: la nuova monovolume della Fiat non verrà più prodotta a Mirafiori, ma in Serbia, perché in Italia i sindacati sono “poco seri” e perché c’è stato “il problema Pomigliano”.
La panzana è palese e soltanto l’ipocrisia e la complicità di tanti, troppi, può farla apparire come una cosa reale. Mica si improvvisa uno stabilimento con tanto di accordi con uno Stato sovrano nel giro di qualche settimana. Costruire fabbriche e produrre automobili è cosa ben diversa dallo spostare una bancarella da un mercato rionale all’altro. No, quella decisione era maturata assai prima di Pomigliano e la Fiom e i Cobas c’entrano nulla. C’entra invece il fatto che in Serbia un operaio prende soltanto 400 euro mensili e, soprattutto, che la Fiat viene letteralmente inondata da favori e denari pubblici per lo stabilimento di Kragujevac: 400 mln di euro di finanziamento vengono dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), 250 mln di euro li ha messi il governo serbo e la Fiat non pagherà le tasse per dieci anni.
In altre parole, Marchionne aveva detto delle bugie anche prima, quando diceva che i nuovi modelli sarebbero andati a Mirafiori, mentre aveva già in tasca gli accordi con il governo serbo. Insomma, il lupo perde il pelo, ma non il vizio. E il vizio della Fiat si chiama finanziamento pubblico, oggi come ai bei tempi andati, quando lo Stato italiano le regalò persino l’Alfa. Vuoi vedere che anche tutte le chiacchiere sul mercato sono una bugia?
A difesa di Marchionne, va tuttavia detto che lui non è l’unico a comportarsi così. Quello di portare la produzione all’estero è, infatti, un abitudine piuttosto diffusa, così come la tendenza dei paesi economicamente più deboli di concedere agevolazioni di ogni tipo pur di attirare investimenti esteri.
Non succede soltanto in Serbia, ma un po’ dappertutto. Per esempio, nella vicina Tunisia, dove il salario mensile medio si colloca tra 125 e 200 euro, il governo offre alle imprese che producono per l’export l’esenzione totale dal pagamento delle tasse e dell’Iva per dieci anni. Risultato? L’Italia è il secondo investitore dopo la Francia e attualmente oltre 700 aziende italiane producono in Tunisia, dal tessile fino alla meccanica. Avrà pensato a questo il nostro caro Ministro Sacconi, quando teorizzava sul Mediterraneo come nuova economia emergente su cui puntare?
Insomma, è la globalizzazione bellezza, l’altra grande bugia del nostro tempo. Dicevano che avrebbe diffuso il benessere, invece sta generalizzando ricatto sociale. Vuoi lavorare? Allora accetta le mie condizioni e senza fiatare.
Marchionne dice che i sindacati in Italia sono pochi seri. Callieri, ex capo del personale della Fiat, oggi sul Corsera aggiunge: “Il modello va cambiato. Confido nei nuovi vertici sindacali (della Cgil, nda) e in particolare in Susanna Camusso”. Insomma, dicono: eliminate la Fiom e così salverete i posti di lavoro in Italia. È una bugia grossa come una casa anche questa, come le altre, perché i nuovi modelli li fanno in Serbia a prescindere e la chiusura di Termini Imerese è in programma comunque.
Anzi, vogliono il silenzio dei lavoratori per potersi fare gli affari loro più in fretta e senza che qualcuno sveli le loro bugie.
Da Aprileonline 24.07.10