Come periodicamente accade nel nostro Paese, si riaccende il tormentone vecchi contro giovani, con l’eterno tema del ringiovanimento dell’università italiana. L’occasione stavolta è la proposta del Pd di mandare in pensione tutti i professori sopra i 65 anni, un’idea lanciata già qualche mese fa ma tornata d’attualità dopo l’apertura del ministro Gelmini. Chiaramente numerosi professori vicini o già sopra la soglia si sono indignati, sentendosi rottamati come vecchie auto, rivendicando l’enorme patrimonio culturale e scientifico che in questo modo andrebbe buttato al vento. Altrettanto prevedibilmente i sostenitori della proposta hanno accusato chiunque fosse contro di voler difendere i baroni, di essere i peggiori nemici dei giovani e così via. C’è tuttavia qualcosa che non torna in questo dibattito un po’ scontato.
Dal lato dei «giovani», per quanto sia facile simpatizzare per i ricercatori che lavorano nel sistema universitario italiano con contratti precari e stipendi da fame, non torna affatto il ragionamento per cui chiunque abbia più di 65 anni rubi lo stipendio mentre i giovani che verrebbero immessi nel sistema sarebbero tutti grandi talenti iperproduttivi. E non torna che persone che per anni hanno usato la retorica del merito e della qualità propongano una misura così indiscriminata che non entra in nessun modo nel merito e nella qualità delle cose. Dall’altro lato, però, stona anche sentire illustri professori difendere la propria categoria autoproclamandosi indispensabili al prestigio e al futuro della ricerca italiana, quando da decenni non sono sottoposti ad alcun tipo di verifica o valutazione.
È sicuramente una situazione complessa, e anche alcuni dei correttivi ipotizzati potrebbero non funzionare, come l’idea espressa mercoledì sul Corriere da Francesco Giavazzi di togliere agli ultrasessantacinquenni il potere di voto nei concorsi. Soluzione interessante, ma che potrebbe non sortire gli effetti sperati, visto che il groviglio di relazioni, favori e amicizie tra professori è talmente fitto che chi voglia manovrare i concorsi può tranquillamente farlo tramite le «seconde file» di suoi fedelissimi. Senza considerare che anche in questo caso si torna a dar per scontato che tutti i sessantacinquenni stiano lì solo per manovrare i concorsi. La questione si potrebbe risolvere in altro modo. Cercando di vedere la parte di ragione di entrambi anziché accanirsi sui rispettivi torti. È vero che l’Università italiana ha raggiunto un livello di vecchiaia ormai patologico ed è vero che ci sono dei professori ordinari che assorbono tantissime risorse economiche senza produrre ricerca scientifica di qualità. Ma è altrettanto vero che ci sono anche professori sopra i 65 anni ancora produttivi, di prestigio internazionale, che possono continuare a dare un contributo importante alla ricerca e alle nuove leve di studenti e ricercatori. Dunque una possibile soluzione: istituire una valutazione rigorosa sulla qualità della produzione scientifica di tutti i professori associati e ordinari, a prescindere dall’età (non solo esistono validi indicatori, ma adesso esiste anche un’Agenzia in Italia, l’Anvur, che avrà le carte in regola per condurre tali valutazioni). I professori che non rientrano negli standard qualitativi previsti potranno scegliere: se hanno un’età pensionabile possono andare in pensione, altrimenti dovranno optare per un contratto differenziato che preveda solo docenza, non ricerca, e che abbia quindi un salario ridotto della metà.
In questo modo i professori che reclamano la propria indispensabilità al sistema universitario italiano avranno finalmente l’opportunità di dimostrarlo. E di farlo non attraverso i criteri del «merito eccezionale» non ben definito che prevede la proposta del Pd, ma dimostrarlo attraverso una regolare valutazione delle loro attività secondo standard scientifici internazionali (così come avrebbe voluto fare il senatore Ignazio Marino, purtroppo inascoltato dal suo stesso partito). Dopotutto il mantenimento in servizio di un professore bravo non deve essere visto come un favore al professore, ma un servizio alla società. Non solo, si risolverebbe anche la questione delle risorse economiche, perché mandare in pensione tutti gli ordinari sopra i 65 significa comunque un onere per le casse dello Stato, a fronte di nessun servizio reso. Invece, riducendo lo stipendio per chi faccia solo attività didattica, si avrebbe una spesa complessiva molto minore, per un servizio importante che comunque viene reso. Infine, si risolverebbe anche la questione dell’intra moenia per i professori sollevata sempre dal Pd. È vero che molti professori hanno attività professionali a latere di quella accademica, ma questo non necessariamente incide sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento. Se un docente riesce comunque a produrre ricerca di qualità potrà fare quello che vuole nel tempo libero, se invece le attività extra vanno a detrimento della qualità accademica sarà lui il primo a tagliare sulle consulenze se ha intenzione di restare professore full time.
La Stampa 24.07.10