Oggi il disegno di legge del Governo sulla riforma dell’università andrà in Aula al Senato. Dopo la riforma Brunetta della pubblica amministrazione, sacrificata sull’altare della manovra economica, anche questa riforma sembra destinata a svanire nel nulla. Nel dibattito in Commissione, i pochi aspetti innovativi del provvedimento, quelli sulla governance delle università, sono stati accuratamente disinnescati dalle lobby accademiche, ben rappresentate in Parlamento. Lunga vita avranno le facoltà, destinate nel disegno originario ad essere soppiantate da dipartimenti molto più vicini all’organizzazione della ricerca, il peso degli esterni nei consigli di amministrazione è stato ulteriormente ridotto e l’obbligo di programmazione triennale, un tentativo di rendere le università maggiormente lungimiranti, abolito perché avrebbe legato le mani, meglio vincolato i bilanci, del Ministero. Non che fossero grandi cambiamenti, ma almeno una parvenza di innovazione la davano. Forse per salvare le apparenze, il ministro Gelmini negli ultimi giorni è stata molto attiva nel fare le uniche riforme di cui questo governo ha sin qui dato prova, quelle annunciate a mezzo stampa. Ecco allora una serie di notizie distillate ai giornali prima ancora che ai parlamentari. Dalla scelta di abbandonare il sistema 3+2 (triennio seguito da biennio) a quella di obbligare i docenti universitari ad andare in pensione a 65 anni “per fare posto ai giovani”.
Anche queste innovazioni hanno già il sapore dello stantio: l´abbandono del 3+2 ci riporta indietro alla situazione di dieci anni fa di cui francamente non avevamo nostalgia, il pensionamento forzato dei docenti anziani rappresenta un modo ormai ampiamente sperimentato di ridurre i costi mettendo a carico dell´Inpdap, anziché degli atenei, docenti che continuano a insegnare e a partecipare alle decisioni accademiche più importanti. Invece di fare spazio ai giovani, rende questi ultimi meno competitivi di fronte ad anziani che praticamente lavorano a costo zero. Del resto i giovani migliori se ne sono già andati. In queste settimane le università hanno eletto commissari di concorsi banditi anni fa, alcuni addirittura nel 2001. L´odissea questa volta si è svolta nelle carte dei concorsi anziché nello spazio e al contrario, tornando indietro nel tempo, anziché evolvendo dal mondo delle scimmie. I candidati più validi in quei concorsi hanno già trovato lavoro altrove, lontano dal nostro paese. Quelli rimasti in lizza verranno giudicati sulla base di pubblicazioni vecchie di dieci anni, come se la produzione scientifica fosse rimasta congelata dall´inizio del Nuovo Millennio, prima che venisse completata la sequenza del genoma umano, fossero stati inventati i farmaci più efficaci nel contrasto del virus HIV o si fossero ritrovati i resti di Ardi, il nostro più antico antenato. Per non parlare dei concorsi delle università telematiche, che vengono annullati dopo esser stati banditi. Per ricevere i finanziamenti ministeriali (e la benedizione del Presidente del Consiglio) per loro conta solo bandire i concorsi anche se i posti banditi non verranno mai creati.
Il panorama è desolante. Eppure oggi le condizioni sarebbero quanto mai propizie per fare una riforma vera, dal basso, dell´università. Due fatti importanti si sono prodotti in questi anni.
Il primo è che molti atenei sono rimasti senza soldi. Ben prima della manovra in corso, la spesa per l´università è diminuita di circa un miliardo dal 2008 al 2010, una riduzione del 7 per cento rispetto ai livelli prima della crisi. Lo certificano i dati della Ragioneria dello Stato. Dato che la spesa pubblica complessiva è nel frattempo aumentata del 10 per cento, la quota della spesa universitaria nel bilancio dello stato è diminuita di quasi il 17 per cento, in netta controtendenza rispetto agli altro paesi, in cui si approfitta delle crisi per investire in capitale umano. Come messo in luce dalla Corte dei Conti, il Fondo di Finanziamento Ordinario per le università in Italia ormai copre a malapena gli stipendi dei docenti, un costo fisso, dato che non possono essere licenziati. Non ci sono risorse per investimenti nella ricerca o per migliorare la qualità della didattica.
La seconda novità è che, con un ritardo di quasi 10 anni, sono state riavviate le procedure e le strutture per una nuova tornata di valutazione della ricerca universitaria dopo quella condotta nel 2004 e, purtroppo, finita in un cassetto. La congiunzione astrale fra questi due eventi ci offre oggi una grande opportunità per riformare dal basso l´istruzione superiore. Basta che il Governo metta a disposizione nei prossimi tre anni un miliardo per l´università (ci avvicinerebbe ai livelli di spesa universitaria pro-capite del Regno Unito, un paese con un sistema universitario pubblico che funziona molto meglio del nostro) e si impegni a distribuirlo tra gli atenei seguendo scrupolosamente i risultati della valutazione. D´ora in poi darà risorse aggiuntive solo agli atenei con i punteggi medi per docente più elevati. Almeno inizialmente le graduatorie potranno essere definite per macro aree per non penalizzare le università del Sud che partono obiettivamente in condizioni di svantaggio. Spingerebbe ogni sede a cercare di reclutare e valorizzare i ricercatori più produttivi per migliorare il proprio punteggio. E la pubblicità della valutazione (significa rendere pubblici i due migliori “prodotti”, lavori scientifici o brevetti, presentati da ogni docente per la valutazione) non solo renderebbe il processo più trasparente, ma anche servirebbe come incentivo individuale. E´ un incentivo potente: per chi vuole davvero fare il nostro mestiere, il bene più prezioso è la reputazione.
Un crescente numero di studi documenta effetti positivi di investimenti nell´istruzione universitaria sui tassi di crescita, soprattutto in paesi avanzati, vicini alla frontiera tecnologica. Un incremento del 3 per cento del numero di persone con un PhD in un paese è in genere associato all´aumento del numero di brevetti e della produttività attorno all´1 per cento all´anno. Esattamente quanto ci servirebbe per riuscire almeno a non perdere altro terreno nei confronti degli altri paesi dell´area dell´Euro da qui al 2015. Secondo le ultime stime del Fondo Monetario, l´Italia è destinata ad accumulare un ritardo di altri 5 punti di pil rispetto a Francia e Germania. Non riformare e per davvero la nostra università equivale perciò a condannarsi ad un´altra pesante recessione, dopo quella che abbiamo appena vissuto.
La Repubblica 22.07.10