Più che marciare soddisfatta verso i festeggiamenti dei 150 anni, l’Italia si sta rinchiudendo in un cerchio sempre più stretto di malumore, insoddisfazione e cupezza.
Eppure se adottiamo uno sguardo lungo che abbracci il secolo e mezzo che ci separa dal 1861, i motivi di orgoglio sono innumerevoli.
Pensiamo agli ostacoli e alle difficoltà che il paese ha dovuto superare: all’interruzione del processo di graduale estensione dei diritti civili e politici causato dall’irruzione del fascismo che ha impedito una più rapida e sicura legittimazione dello stato; oppure alla devastazione prodotta dal conflitto mondiale e alle lacerazioni di una guerra civile, limitata quanto feroce; o, ancora, alla miseria disperata di tante parti del Mezzogiorno abbandonate alla prepotenza della criminalità e all’incuria e allo sfruttamento, di possidenti e rentiers. Nonostante questi e tanti altri scogli l’Italia è oggi “irriconoscibile” agli occhi delle generazioni passate: nessuno, nel corso dei primi cinquant’anni del secolo scorso, immaginava che sarebbe diventata un paese del G-7, (potenzialmente) leader in Europa, con i suoi militari impegnati con onore in tante missioni all’estero.
Tutto ciò è stato merito di un virtuoso intreccio tra economia e società da un lato, e politica dall’altro. Il dopoguerra ha consentito una feconda integrazione tra una società vogliosa di riscatto e di affermazione, una economia scoppiettante di iniziative e di intrapresa, e una politica in grado di indicare, quanto meno, una direzione.
Quelle energie e quell’integrazione erano andate esaurendosi già negli anni 80. La politica si trovò impreparata a interpretare quanto di nuovo andava fermentando nella società: emergeva allora una domanda di “liberazione”, su vari piani. Liberazione dalla egemonia culturale marxista e cattolica officiata dalle rispettive chiese politiche (Pci e Dc) e dai riti della politica tradizionale, burocratica e oligarchica, lottizzata e corrotta. Liberazione da un sistema economico e sociale riverente dei salotti buoni, e ingabbiato da lacci e laccioli. Liberazione da modelli di comportamento eredi di una tradizione cattolica pre-conciliare e di una società pre-moderna.
Di questo fermento, segnalato dai migliori opinionisti dell’epoca e monitorato dalle prime ricerche del Censis e di altri istituti, la classe dirigente, prima ancora della classe politica, non se ne curava. Pensavano, per riprendere una celebre espressione dell’allora primo ministro Bettino Craxi, che, comunque, “la nave andasse”. E invece si incagliò contro tangentopoli. Il collasso del vecchio sistema dei partiti era nell’aria da tempo perché il circuito virtuoso tra economia, società e politica si era spezzato.
La rivoluzione del ’94, anticipata dal successo della Lega e poi “incarnata” dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, parte da quel cortocircuito. E chi se non un imprenditore di successo e un disinibito tribuno del fai-da-te poteva meglio interpretare la domanda di cambiamento? I vincitori del ’94 esprimevano plasticamente la pulsione al nuovo sia sul piano economico (il liberismo pro-market berlusconiano di quella fase), che sociale (l’irruzione di nuovi ceti dalle partite Iva ai piccoli imprenditori, identificati con il popolo laborioso bossiano o con il self-made-man berlusconiano), che culturale (l’adesione agli stili di vita post-materialisti ben diversi da quelli veicolati dalla recente curvatura neoclericale del centro-destra).
Il successo ripetuto del centro-destra in questi quindici anni (anche nel ’96 era maggioranza ma perse perché diviso) si spiega con la sua capacità di intercettare esigenze di una società in trasformazione, esigenze che non trovavano interlocutori nei vecchi partiti, né tanto meno in quelli pallidamente trasformati della sinistra.
Negli ultimi anni però il centro-destra ha perso anch’esso contatto con la società. Ha vellicato il proprio elettorato di riferimento con una valanga di provvedimenti tagliati su misura, ma non ha capito che il vento è cambiato, e solo la pochezza degli avversari gli ha consentito di raccogliere ancora vittorie. Il vento ha girato a metà del decennio scorso quando si è manifestata la crisi della “quarta settimana”. Per la prima volta dal 1992 sono tornate preoccupazioni economiche, timori di impoverimento, senso di emarginazione sociale, perdita di fiducia nel futuro. Alla fine degli anni Novanta, rivela un sondaggio della Swg, gli italiani erano convinti che il paese si stesse modernizzando, grazie alla sfida vinta dell’euro. In pochi anni la quota di coloro che avevano espresso questa convinzione era salita dal 53% del 1997 al 76% del 2000 e questa valutazione si era mantenuta inalterata per alcuni anni. Poi, la delusione per la gestione del changeover, tutta a favore di chi poteva fare i prezzi e a danno di chi aveva reddito fisso, e una crescita stagnante, vicino alla zero, hanno incrinato quella fiducia; e ormai sono molti di più quelli che pensano che l’Italia stia regredendo (59%) rispetto a quelli che sperano ancora nella modernizzazione (41%).
L’umore del paese non è più quello degli anni 90 efficacemente interpretato dalla scintillante novità del forzaleghismo. Dietro il centro-destra oggi non ci sono più settori sociali convinti della proposta (ma quale?) della maggioranza. Anche la sua credibilità in termini di protezione e giustizia sociale – domande che si sono impennate nella società – resiste solo grazie all’afasia della sinistra, perché quelle domande non sono nei suoi geni politici.
Ne deriva una società che si incupisce nella crisi e che non trova interlocutori politici sensibili alle sue “nuove” domande di protezione e giustizia. L’origine profonda delle convulsioni del governo sta proprio nell’aver perso il sostegno originario di ceti, magari arrembanti ma vitali. Oggi le domande sono diverse ed a queste è più difficile dare risposte; e non solo da destra.
Il Sole 24 ore 13.07.10