Sarebbe interessante un sondaggio sull’ultimo «scandalo» che vede il ritorno dei vecchi coscritti della P2 e il coinvolgimento, fra gli altri, di uno dei coordinatori del Pdl, Denis Verdini. È probabile, anzi quasi certo, che la stragrande maggioranza degli interpellati dichiarerebbe di non saperne nulla. Chiunque di noi può sincerarsene organizzando un mini-sondaggio fai da te. Provate a parlarne a tavola o al bar con un gruppo di conoscenti: persone di buona istruzione, anche lettori abituali di giornali, vi guarderebbero sbarrando gli occhi come per chiedervi «Verdini chi?».
È che ormai nessuno scandalo fa più veramente scandalo. Bisognerebbe modificare la stessa definizione del termine che ne dà il vocabolario: da «evento o incidente che provoca una vivace reazione nell’opinione pubblica» a «fatto ordinario registrato dai media come le previsioni del tempo e serenamente accettato dai lettori».
A beneficio di questa stragrande maggioranza di connazionali che comprensibilmente non sa neppure di che cosa stiamo parlando, proviamo a fornire una sintesi dei fatti. A Roma c’è un’inchiesta della magistratura su una presunta associazione segreta che avrebbe cercato di condizionare le istituzioni.
Ad esempio, influenzando la nomina di importanti giudici e quindi tutta una serie di sentenze; e promuovendo o stroncando, a seconda dei casi, le carriere di uomini politici. Secondo l’accusa ci sarebbero state, a casa di Denis Verdini, alcune cene durante le quali un gruppo di persone avrebbe ad esempio: 1) cercato (senza riuscirci) di influire sui giudici della Corte Costituzionale per far passare il lodo Alfano, cioè la sospensione dei processi penali per le alte cariche dello Stato; 2) deciso (riuscendovi) il nome del nuovo presidente della Corte d’appello di Milano; 3) attivato una strategia per screditare il candidato del Pdl alla presidenza della Regione Campania Stefano Caldoro, facendolo passare per un frequentatore di transessuali, e così rendendo un servigio a un altro esponente del Pdl, Nicola Cosentino, impresentabile alle elezioni in quanto accusato di rapporti con la camorra; 4) fatto pressioni sulla Corte di Cassazione affinché accogliesse il ricorso dello stesso Cosentino contro la richiesta di arresto della Procura di Napoli.
In questa inchiesta sono indagati appunto Verdini, Cosentino e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Altre persone sono addirittura state arrestate e tra costoro c’è un nome che è sicuramente sconosciuto ai più giovani, ma che è in grado di far sobbalzare sulla sedia i meno giovani con un meravigliato «ma come, è ancora vivo?». Si tratta di Flavio Carboni, che nelle cronache dei primi Anni Ottanta veniva presentato come «il faccendiere Carboni», e che era una delle anime nere della loggia massonica P2 di Licio Gelli (tra un po’, vedrete, rispunterà fuori anche lui: l’Italia è il Paese dei «rieccoli»).
È ovvio che siamo ancora ai preliminari e che nessun giudizio può essere azzardato. Tuttavia alcuni fatti sono innegabili. Intanto, Carboni ha nel cursus honorum una condanna a otto anni per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, un crac che rovinò decine di migliaia di famiglie: eppure è ancora in giro, fa riunioni con il coordinatore del partito di maggioranza e si occupa, come ha detto lui stesso, «di affari di Stato, di operazioni che riguardano lo Stato». Secondo, nella storia del trappolone a Caldoro qualche cosa di vero ci deve essere, visto che l’assessore regionale campano Ernesto Sica, indicato come uno degli attori del complotto, l’altro ieri si è dimesso. Eppure Nicola Cosentino, nonostante questa vicenda, e nonostante la precedente inchiesta per camorra, resta tranquillamente sottosegretario all’economia e coordinatore del Pdl campano. Non si è dimesso, come non si è dimesso Verdini e come non si è dimesso da senatore Marcello Dell’Utri, recentemente condannato in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Come non si dimette quasi nessuno.
E questo accade proprio perché, come dicevamo all’inizio, tutto ormai scivola via, viene ingoiato nella normalità. Seguiamo poco, ci disinteressiamo. Un po’ per assuefazione, per noia. Ma un po’ anche perché, purtroppo, è cambiato – e molto – il comune senso della morale. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se un importante uomo politico, trenta o quaranta anni fa, fosse stato condannato per mafia e anche avesse solo partecipato a equivoci festini. Forse allora eravamo bacchettoni e ipocriti, ma l’ipocrisia è anche l’omaggio che il vizio rende alla virtù: nascondevamo le nostre malefatte perché sapevamo che c’era di che vergognarsi. Era l’Italia in cui finire sul bollettino dei protesti o più semplicemente andare in rosso in banca era un disonore: oggi, un rinvio a giudizio è una medaglia al valore. Ai politici perdoniamo molto perché molto abbiamo da farci perdonare.
Non stiamo facendo un elogio del professionista dell’indignazione: spesso l’indignato è colui che si indigna solo per i peccati altrui. Ma oggi il rischio è l’indifferenza, quando non la complice acquiescenza. Ed è questo che ci spaventa.
La Stampa 13.07.10