attualità, cultura, politica italiana

«Quando lo sciopero funziona», di Mario Lavia

C’era un modo migliore per trasmettere un messaggio agli italiani? Bisogna avere l’onestà di rispondere a questa domanda, quando si discetta sulla efficacia dello sciopero dei giornalisti. Anche questo giornale si è chiesto se avesse un senso non far uscire ieri i giornali invece di spiegare e rispiegare le ragioni del no ad una legge sbagliatissima come quella sulle intercettazioni. Anche Europa si pone il problema di trovare nuovi strumenti di pressione e di protesta, di coinvolgimento dei colleghi specie più giovani e meno sindacalizzati, anche noi chiediamo alla categoria di svecchiare certi discorsi e di non chiudere gli occhi dinanzi ad una realtà per la stampa sempre più drammatica. Si è discusso, nelle redazioni: bene, benissimo.
Ciò detto, ci pare che lo sciopero dei giornalisti abbia colto l’obiettivo di far sapere all’Italia (soprattutto quella che i giornali non li compra ma che vive davanti alla tv) che il governo pretende una legge che limita il diritto-dovere di informare e quello, forse ancora più scottante, di svolgere le indagini sulle mille facce del malaffare italiano. Addirittura ci piace pensare di aver giocato un ruolo nella mossa di ieri di Alfano. Ritorniamo allora alla domanda iniziale: c’era un modo migliore per parlare a tutti gli italiani? Risposta: no, non c’era.

da www.europaquotidiano.it

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«Il senso del silenzio», editoriale di Repubblica del 09 luglio 2010

Oggi non usciranno i quotidiani, taceranno i notiziari televisivi e radiofonici, resteranno fermi i siti internet per lo sciopero nazionale dei giornalisti contro la “legge bavaglio”. Può sembrare una contraddizione davanti ad una legge che limita la libertà d’informazione, firmata da un Premier che invita i lettori a scioperare contro i quotidiani. In realtà è un gesto di responsabilità dei giornalisti italiani per denunciare il governo e richiamare l’attenzione di tutti i cittadini sulla gravità di una norma che colpisce insieme la tutela della legalità, il contrasto al crimine e la libera e trasparente circolazione delle notizie.

Non si tratta di uno sciopero corporativo, ma di una protesta a tutela dei cittadini, cui la legge nega il diritto di essere liberamente informati, cioè di conoscere e di sapere, e dunque di rendersi consapevoli e di giudicare a ragion veduta. A questo diritto fondamentale, corrisponde il dovere dei giornali di dare tutte le notizie utili ai lettori, con un autonomo e libero lavoro di ricerca, selezione e gerarchia delle informazioni, che viene giudicato ogni giorno dal mercato.

Questo sciopero è anche l’unico modo, in uno sfortunato Paese di improprio monopolio televisivo, per portare a conoscenza del pubblico delle televisioni ciò che sta avvenendo nel circuito tra il potere, la giustizia, l’informazione e la pubblica opinione: e cioè il tentativo con la legge di ostruire questo circuito, perché i magistrati che indagano vengano limitati nel loro lavoro di ricerca delle prove, i giornalisti che informano debbano tacere, e i cittadini che possono giudicare rimangano al buio. Di questo, i telegiornali di corte non parlano: per un giorno il black out televisivo parlerà per loro, e i telespettatori sapranno finalmente che c’è un problema, e li riguarda.

Repubblica da 50 giorni si oppone al bavaglio insieme con i suoi lettori. I post-it lanciati sul nostro sito dai ragazzi sono diventati il simbolo dell’opposizione alla legge, così come le firme di protesta, i videoappelli di artisti e intellettuali, gli editoriali del giornale. Andremo avanti fino in fondo, per fermare una legge irragionevole e contraria a principi fondamentali, nell’interesse della democrazia. Questo è il significato del silenzio di oggi.

da www.repubblica.it

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