Vogliono difendere il ruolo dell’università pubblica contro il disegno di legge Gelmini e i tagli della manovra finanziaria, si schierano al fianco delle migliaia di ricercatori che si asterranno dalla didattica non obbligatoria, protestano contro l’infinito precariato della ricerca in Italia e promettono il rinvio dell’inizio delle lezioni il prossimo anno accademico. Quello firmato da quasi cinquecento docenti è il primo documento dei filosofi e dei giuristi italiani a due anni dall’inizio delle mobilitazioni contro le politiche governative sulla ricerca. «Massimo Cacciari l’ha definito un documento troppo poco autocritico, altri hanno detto il contrario – afferma Mario Dogliani, docente di diritto costituzionale all’università di Torino e vicepresidente del Centro per la riforma dello stato, uno degli autori dell’appello – Noi abbiamo scelto di denunciare il silenzio del mondo accademico che è paralizzato da un senso di colpa collettivo».
Da cosa deriva?
Dalla consapevolezza che l’università ha utilizzato male la propria autonomia e dalla sistematica denigrazione fatta dalla stampa, e anche dalle forze di sinistra, che l’hanno considerata un luogo del malaffare. Tutti sanno che non è vero e che, nonostante il sottofinanziamento, l’università italiana produce una ricerca ben valutata nelle statistiche internazionali. L’accademia, come la politica locale, hanno però la responsabilità della proliferazione delle sedi, dei corsi di laurea, degli insegnamenti a contratto. Non si possono nascondere le difficoltà della riforma dei cicli didattici, il 3+2, e tantomeno il modo di gestire i concorsi.
Non crede che il nuovo regolamento sui concorsi comporterà un peggioramento di questa tendenza?
Su questi aspetti si deve continuare a discutere. La parte più seria dell’accademia si è resa conto che i concorsi locali autorizzano politiche di reclutamento fondate sull’interesse di chi ha bandito i concorsi. La cooptazione dovrebbe essere una prassi collegiale che riscuote il consenso della comunità scientifica. Molti invece difendono i propri allievi al di là di una seria comparazione dei meriti.
Qual è la situazione attuale dell’università?
C’è un governo che la sta strangolando fino a farla morire. Negli ultimi 3 anni il congelamento del finanziamento all’università di Torino, dove sono vicerettore, ha superato i 100 milioni. Tutto questo avviene mentre la Conferenza dei rettori si è allineata al governo come un soldatino. Quello che mi preoccupa è che anche tra i critici della riforma ricorre l’idea che l’università sia un luogo per l’innovazione tecnologica delle imprese. Se ci si mette solo su questa strada, l’università è inutile.
Come si può invertire questa tendenza?
Nessuno nega l’importanza della ricerca applicata, ma non ci si può rassegnare all’idea che l’università debba essere immediatamente utile per il mondo economico e che produca solo dei buoni tecnici. La libertà della ricerca non viene garantita dai suoi committenti, ma dal fatto che è autonoma e per questa ragione si auto-legittima agli occhi della società. Ma questo, purtroppo, non lo capisce più nessuno.
Perché paragonate l’attacco all’autonomia dell’università a quello contro la magistratura?
La protezione dell’autonomia della magistratura e della ricerca muovono dal presupposto costituzionale che entrambi devono restare liberi dal potere politico, religioso o economico. Un presupposto che è del tutto estraneo alla cultura populistica che porta avanti questi attacchi. Il populismo è per la supremazia di un potere carismatico che non sopporta l’autonomia della giurisdizione come quella della cultura.
dal Manifesto