È la legge di gravità che ha costretto infine Aldo Brancher a dimettersi ieri da ministro. Persino in Italia, non si può rimanere sospesi nel nulla governativo senza deleghe, senza ragioni politiche, senza giustificazioni istituzionali, appesi soltanto ad un’urgenza privata di salvaguardia dalla giustizia, per scappare al proprio giudice e all’uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge, secondo lo sperimentato modello Berlusconi.
Per questa ragione il Premier è nudo, dopo le dimissioni di Brancher, davanti al sopruso tentato e non consumato. Il sistema – quell’insieme di regole, soggetti, diritti e doveri che reggono la Repubblica democratica – si può forzare fino a un certo punto, non oltre. Il Cavaliere ha toccato con mano questo confine: la sconfitta è pesante proprio perché è la prova di un’impotenza e la conferma che l’arbitrio ha un limite. Quel limite democratico che passa tra la tenuta delle istituzioni responsabili e la reazione della pubblica opinione.
È un Cavaliere dimezzato quello che nomina Brancher ministro e poi lo ritira, svilendo il governo nelle porte girevoli di un triste vaudeville. Una specie di animale politico ferito perché la prepotenza istituzionale era stata finora la sua vera arma per uscire dalle difficoltà, quando si trovava nell’angolo.
Ora rimane l’angolo, le difficoltà si ingigantiscono sotto gli occhi di tutti, ma la prepotenza non funziona più. Il ruggito del “ghe pensi mi” viene ingigantito dai telegiornali, ma sembra venire dal cimitero degli elefanti, quasi una richiesta d’aiuto. Così l’annuncio roboante di pochi giorni fa, a reti unificate, si rovescia nel preannuncio di una ritirata impaurita, da governo balneare democristiano.
Che cosa resta di questo avventurismo da fine corsa? Le impronte digitali, prima di tutto, sugli annali della Repubblica. Sono le impronte tipiche di Berlusconi e testimoniano due cose: prima fra tutte, la concezione privata dello Stato, e l’uso del governo e dei ministeri come un qualsiasi appannaggio personale, di cui il Capo può disporre comunque a vantaggio di chiunque, meglio se si tratta di suoi ex dipendenti aziendali.
Ma è ancora più grave, perché rivelatrice, la seconda lezione che si deve trarre dal caso Berlusconi-Brancher. Ed è il rapporto inconfessabile che lega il nostro Presidente del Consiglio ad alcuni uomini – ieri Previti, oggi Brancher, ieri, oggi e domani Dell’Utri – che conoscono e partecipano il segreto oscuro delle origini. Fra questi personaggi e il Cavaliere il rapporto sotto pressione diventa drammatico e costringente da entrambe le parti. Un rapporto servo-padrone ma con i ruoli che si scambiano, perché è via via sempre più palese che entrambi agiscono in una dipendenza reciproca che li obbliga terribilmente, di cui non possono liberarsi: semplicemente perché ognuno sa ciò che l’altro conosce, e non c’è salvezza fuori da questo legame costrittivo, per sempre.
È una logica da setta ben più che da partito, da gruppo chiuso e non da formazione liberale, è la negazione della trasparenza e della pubblicità che dovrebbe governare la politica, anche nei momenti più difficili, anche nei conflitti. E il vero gran sacerdote, Fedele Confalonieri, ha svelato addirittura la liturgia e il rito ambrosiano separato che regola il cerchio più ristretto del berlusconismo, nel leggendario racconto all’epoca dell’arresto di Brancher per Tangentopoli: quando rivelò che lui e Berlusconi, futuro Presidente del Consiglio italiano, ogni domenica mattina si facevano condurre dall’autista attorno a San Vittore, dove giravano in Mercedes “per entrare in comunicazione spirituale con Brancher detenuto”.
Bisogna domandarsi, a questo punto, qual è il grado di libertà personale e politica di un Capo di governo che sente questo tipo di obbligazioni e per rispondervi è costretto a ingannare il Capo dello Stato (che non ci sta) e a compiere atti politicamente autolesionisti per un’evidente urgenza a cui non può permettersi di sfuggire. Un premier che nomina un ministro per un incarico che non c’è e che tiene vuoto l’incarico di un altro ministro che non c’è più, costretto a dimettersi per lo scandalo – tutto ancora aperto – della Protezione Civile.
La questione, con ogni evidenza, non è giudiziaria, è tutta politica. Brancher, come gli auguriamo, può anche risultare innocente in tribunale, ma resta colpevole la commistione tra i suoi guai privati e il salvacondotto pubblico costruito insieme con il Cavaliere. La marcia indietro obbligata conferma che non ci sono più coperchi ad Arcore per le troppe pentole fabbricate da diavoli di serie B: e testimonia una debolezza politica ormai evidente nel leader, dopo la condanna di Dell’Utri, la rivolta costituzionale di Fini, gli avvertimenti istituzionali di Napolitano, l’incertezza della manovra, lo scandalo Bertolaso, l’affare Scajola, la forza separata di Tremonti, la febbre della Lega.
L’immagine che riassume tutto è il piano inclinato: sul quale rotola un governo che non governa da mesi, una leadership imponente ma immobile nel suo affanno -salvo colpi di coda-, come una balena spiaggiata. E al fondo della confusione, rotola un ministro ormai abbandonato che va a dimettersi addirittura in quel tribunale a cui voleva sfuggire, con la nomina fantasma del Cavaliere.
la Repubblica del 6 luglio 2010