NONOSTANTE il “ghe pensi mi” detto da Berlusconi nella sua doppia dichiarazione al Tg1 e al Tg5 dell’altro ieri, è sensazione generale che il blocco politico di centrodestra si stia sfaldando. I segnali più chiari vengono addirittura dalla Lega: Bossi solidarizza con il severo monito di Napolitano concernente la legge sulle intercettazioni e ha posto solidi paletti contro l’ipotesi d’uno scioglimento anticipato delle Camere.
Fini dal canto suo ha confermato che quella legge, per come è uscita dopo il voto di fiducia al Senato, non è accettabile. Casini nell’intervista data oggi al nostro giornale respinge i pressanti inviti che gli vengono rivolti per rientrare nello schieramento di centrodestra.
Infine cresce il livello dello scontro sulla manovra economica tra le Regioni e il ministro dell’Economia.
Giulio Tremonti ha deciso di aumentare l’Irap per tutte le Regioni meridionali che hanno un bilancio della sanità in sfacelo, ma usare proprio l’Irap per ripianare quel buco nero avrebbe un effetto dirompente sul costo del lavoro proprio in quei territori in cui la disoccupazione e in particolare quella giovanile è già arrivata a livelli insostenibili. E qui i durissimi interventi critici della Marcegaglia e di tutta la Confindustria.
Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza dalla sentenza di condanna a sette anni di reclusione di Marcello Dell’Utri per associazione mafiosa. La gravità politica di quella sentenza è stata rapidamente archiviata, eppure essa ha rivelato un retroterra impossibile da sottacere. Perciò sarà proprio questo l’oggetto delle mie odierne riflessioni.
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Io non credo che quella parte della sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha messo Dell’Utri fuori causa per quanto riguarda le stragi del 1992-93 sarà ribaltata da altri tribunali e da altre investigazioni.
So bene che sono al lavoro da diversi ma convergenti punti di vista il tribunale di Caltanissetta, quello di Firenze e la stessa Procura di Palermo; è al lavoro la Commissione antimafia presieduta dal senatore Pisanu; indagano reparti specializzati di Carabinieri e Guardia di finanza ed anche giornalisti capaci e dotati di memoria storica e di collaudate relazioni informative.
Ma non credo che questo lavoro sboccherà in una accertata verità giudiziaria. Bisognerebbe poter disporre di documenti e di testimonianze coperti da segreto, sprofondati in qualche fossa e in qualche buco nero talmente profondi da precludere un risultato giudiziariamente inoppugnabile.
Può darsi naturalmente che questa mia previsione si riveli sbagliata. Come cittadino non so se augurarmelo o temerlo.
Ma mi sono convinto dopo attenta riflessione che la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha condannato Dell’Utri sia comunque arrivata all’accertamento d’una terribile verità, trasformando ciò che era una ipotesi in una certezza giudiziaria che accomuna, attraverso la mediazione di Dell’Utri ma non soltanto, la Cupola di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi per un periodo di vent’anni, un arco di tempo che abbraccia l’intera carriera imprenditoriale del “signore” di Arcore, la nascita del suo successo nel settore immobiliare, poi in quello televisivo, poi in quello commerciale, da Milano 2 fino a Fininvest, senza soluzione di continuità.
Vale ovviamente per Dell’Utri e quindi per l’intera fattispecie giudiziaria la presunzione di innocenza ancora in piedi in attesa del giudizio della Cassazione. Il quale tuttavia riguarderà soltanto questioni di legittimità e non di merito. Non si può escludere l’ipotesi che la Suprema Corte – come è nei suoi poteri – ravvisi errori di legittimità che affidino ad un’altra Corte d’appello il compito di un nuovo giudizio.
Tutto ciò è ancora possibile. Ma allo stato dei fatti una prima certezza sul merito è stata acquisita e confermata in due gradi di giurisdizione con dovizia di testimonianze e riscontri.
Quanto a Berlusconi, che nel processo di Palermo ha rifiutato di rispondere nonostante fosse citato come semplice testimone, non è mai riuscito a fornire una credibile spiegazione alternativa ai finanziamenti con i quali intraprese la sua scalata imprenditoriale. La presenza di capitale riciclato di origine mafiosa, il ruolo della Banca Rasini, dotata di un unico sportello a Milano ma di solidi agganci con società-fantasma situate a Lugano e in altri paradisi fiscali, la nebulosa mai chiarita delle ventisei società fiduciarie che si spartirono le quote di Fininvest, infine la presenza di personaggi mafiosi nel più intimo “entourage” berlusconiano, sono fatti sui quali la sentenza di Palermo ha fornito una concretezza di tale solidità e coerenza che dovrebbero provocare un dibattito politico e storico di amplissime dimensioni.
Al centro di questo dibattito c’è il ruolo di Marcello Dell’Utri. Ruolo finanziario, organizzativo, politico, a fianco di Silvio Berlusconi dai primi anni Settanta fino ad oggi. Giuseppe D’Avanzo nel suo articolo di martedì scorso di commento alla sentenza di Palermo ha ricordato quali sono stati i due angeli custodi di Berlusconi lungo tutto quel periodo: Cesare Previti e appunto Marcello Dell’Utri.
Il primo condannato con sentenza definitiva per corruzione di magistrato, il secondo colpito ora in appello per associazione mafiosa. Entrambi gli angeli custodi e le condanne che li riguardano coprono un periodo che precede l’ingresso in politica di Berlusconi: fatti antichi che hanno tuttavia costituito la premessa necessaria anche se non sufficiente del successo politico berlusconiano.
Questo è il tema del dibattito che tuttavia stenta ad avviarsi. Perché? Qual è l’elemento frenante che spinge su un binario morto un tema essenziale per comprendere quanto è accaduto in Italia nel corso di un ventennio che ha gettato le basi della situazione politica tuttora in corso?
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Questa domanda ci porta direttamente al cuore dell’azione di governo di questi due anni: l’occupazione completa della Rai, la legge bavaglio sulla stampa, la messa sotto accusa della magistratura e la riforma che approderà nei prossimi giorni in Parlamento, gli insulti quotidiani contro la Corte Costituzionale degradata ad organo fazioso e politicizzato, l’intento di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale trasformando di fatto i magistrati della pubblica accusa in funzionari del governo.
Questa politica ha un senso e una lucida coerenza se la si mette in rapporto con i vent’anni che precedono l’ingresso dell’imprenditore Berlusconi nell’agone politico.
Il controllo della Rai e la legge bavaglio servono a impedire che il pubblico sia informato di quanto realmente è accaduto e accade. Per sviare l’attenzione del pubblico si usa un diversivo: quello di contrapporre all’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di stampa l’articolo 15 che tutela la privatezza delle persone: due principi che potrebbero facilmente integrarsi e che vengono invece contrapposti affinché il secondo prevalga sul primo o almeno lo elida.
Basterebbe infatti, come più volte abbiamo proposto, affidare ad un collegio di magistrati l’esame preliminare delle intercettazioni eliminando quelle che riguardano soggetti estranei ai reati perseguiti e occasionalmente ascoltati. Basterebbe questa semplice e doverosa cautela per risolvere la questione, lasciando tutto il resto inalterato. Ma non è questo che vuole il potere berlusconiano ed è stupefacente vedere l’avallo che gli viene dato su questo delicatissimo tema da intellettuali che si professano liberali mentre offrono le loro firme per un’operazione palesemente liberticida.
L’altro punto cruciale riguarda il progetto di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Ricordate il film Z-L’orgia del potere che raccontò il regime dei colonnelli greci? Uno dei protagonisti di quel film era un giudice istruttore decisamente apolitico ed anzi di idee conservatrici, il quale scoprì le malefatte della “cricca” dei colonnelli e non ebbe tregua fino a quando non accertò la verità.
Ne parlò anche Paolo Barile per sostenere la necessità dell’azione penale obbligatoria, unica vera salvaguardia dell’indipendenza del pubblico ministero: “Senza l’obbligatorietà, il pubblico ministero cessa di essere un magistrato indipendente e diventa un semplice funzionario al servizio del governo o, nel migliore dei casi, del Parlamento”.
La dipendenza dal Parlamento era ipotizzata da Barile come un’ipotesi accettabile, se i deputati fossero stati eletti dal popolo. Ma non lo sono. La legge elettorale “porcellum” affida al governo in via esclusiva la scelta dei candidati, inseriti in liste bloccate. Ogni tentativo da parte delle opposizioni di modificare quella legge è fin qui caduto nel nulla.
Questo significa che il potere esecutivo ha smantellato completamente l’autonomia del potere legislativo e le sue funzioni di controllo. Il Parlamento è ormai ridotto ad una camera di registrazione dei voleri del principe. Come se non bastasse una maggioranza clonata, si aggiunge la decretazione d’urgenza ormai diventata normalità e il potere di ordinanza che sfugge perfino al vaglio del presidente della Repubblica.
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La conclusione è questa: quando un imprenditore che ha subìto fin dall’inizio della sua carriera un condizionamento e una soggezione mafiosa durata almeno vent’anni, conquista il potere, il suo obiettivo non può essere altroché quello di blindarlo, affievolendo tutti i contropoteri di garanzia e di libera informazione, asservendo il Parlamento attraverso una legge elettorale vergognosa, smontando l’indipendenza della magistratura, intimidendo la Corte Costituzionale, infine degradando la pubblica accusa retrocedendola dal ruolo giurisdizionale a quello di un’avvocatura che opera su commissione.
Questo è il quadro. La sentenza di condanna di Marcello Dell’Utri ne illustra le premesse e ne spiega la logica evoluzione. Per fortuna c’è ancora qualche giudice, c’è ancora un’opposizione, c’è ancora qualche giornale ad impedire che la democrazia si spenga sotto una cappa di piombo. E c’è un presidente della Repubblica che fa fino in fondo quello che deve fare.
Gli elementi per combattere una buona battaglia ci sono dunque tutti.
da www.repubblica.it