economia, politica italiana

«L'albero capovolto del federalismo. Più spese locali e meno autonomia impositiva», di Tito Boeri

Dal governo niente sanzioni a chi si indebita e addio taglio delle Province

È STATO un parto difficile, durato ben 14 mesi, il tempo intercorso tra l’approvazione della legge delega sul federalismo fiscale e la consegna alla Camera della Relazione sul Federalismo Fiscale. Eppure non si vedono “importanti passi in avanti”.

Erano stati annunciati da alcuni commentatori, forse spaventati dalle 201 pagine del documento. Ci sono, questo sì, alcuni dati in più sulla contabilità locale, che confermano preoccupazioni diffuse circa lo scarso controllo da parte del centro della spesa locale. Meglio se fossero stati resi pubblici assieme a opportuni correttivi. Molti si chiederanno: com’è possibile che ci si accorga solo ora che la contabilità locale è così disastrata, piena di omissioni (“carenze cognitive” nel linguaggio del rapporto) e di classificazioni arbitrarie? E cosa si vuol fare per riformare norme contabili e controlli dei revisori che hanno permesso questo sfacelo? Il problema è che sin qui il federalismo ha fatto solo aumentare la spesa pubblica. Per rassicurare i mercati, per convincerli che d’ora in poi porterà a risparmi, ci vuole molto di più di vaghe dichiarazioni di principio.

Chi ha rovesciato l’albero e come raddrizzarlo?
La diagnosi della relazione è condivisibile. Il federalismo all’italiana sin qui è stato un “albero storto”. Forse è un giudizio fin troppo lusinghiero. Per usare una metafora celtica, cara perciò a chi detiene il marchio del federalismo in Italia, questo è stato un albero capovolto. Le sue radici (le fonti di finanziamento) cercavano acqua prendendo invece i raggi del sole e la sua chioma (i servizi offerti ai cittadini) era schiacciata verso il terreno, oppressa dall’insostenibile peso del fusto, un’amministrazione pubblica inefficiente perché poco responsabilizzata agli occhi degli elettori, con inutili duplicazioni di funzioni fra diversi livelli di governo.
Per raddrizzare l’albero del federalismo fiscale bisogna perciò 1) ridare autonomia impositiva, dunque radici, alla spesa locale; e, 2) rendere trasparente il legame fra benefici e oneri per i cittadini, fra servizi offerti a livello locale e loro fonti di finanziamento. Serve a permettere un controllo democratico dell’operato di chi ci governa ai vari livelli. I due problemi solo in parte si sovrappongono: dati gli enormi divari territoriali di reddito e di capacità impositiva, in Italia ci saranno sempre trasferimenti perequativi fra diverse giurisdizioni, anche quando le imposte verranno assegnate in modo non ambiguo ai diversi livelli di governo. La Relazione purtroppo non compie alcun passo in avanti su questi aspetti cruciali rispetto alla legge delega. Né si avverte leggendola il segnale di un’inversione di tendenza. Peccato perché nel settennato di Tremonti alla guida della politica economica italiana, l’albero del federalismo è stato ulteriormente stortato-rovesciato: la quota delle entrate tributarie sul totale delle entrate delle amministrazioni locali è calata di ben due punti percentuali dopo l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, mentre la quota di spesa delle amministrazioni locali sul totale della spesa pubblica primaria è salita ulteriormente, dal 33,7 al 34,5 per cento. Se il Governo vuole adesso davvero raddrizzare l’albero e non ha la bacchetta magica di Mago Merlino, dovrà dirci al più presto come intende rimpiazzare l’Ici prima casa e come intende tenere sotto controllo la spesa non coperta, il debito pubblico, che si accumula a livello locale.

Come sostituire l’ICI sulla prima casa?
Come si vede dal grafico, fino al 2008 l’ICI rappresentava la fonte primaria di entrate tributarie comunali ed era, come tale, facilmente percepita dai cittadini come la tassa che finanziava i Comuni. Il fatto è che la casa è un bene per definizione immobile, che perciò non crea conflitti fra giurisdizioni sulla titolarità del gettito. L’ICI aveva anche altri vantaggi. Essendo l’offerta di case poco sensibile alle variazioni di prezzo, può essere tassata con effetti molto meno distorsivi delle tasse sul capitale o sul lavoro. Inoltre l’ICI in Italia è stata storicamente una delle poche tasse che non opera prelievi sul reddito, tartassato e anche per questo fortemente evaso. In un paese che soffre di bassa crescita è molto importante tassare di più i patrimoni e di meno i redditi e, soprattutto, i fattori produttivi. Come propone lo stesso Fondo Monetario, bisognerebbe almeno portarsi al livello di tassazione dei patrimoni degli Stati Uniti. Vorrebbe dire fino a 20 miliardi di entrate aggiuntive che potrebbero essere utilizzate per ridurre le imposte sul lavoro.
La Relazione tuttavia si limita a proporre un “trasferimento ai Comuni dei tributi statali che attualmente insistono sul comparto immobiliare”, vale a dire le tasse sulla riscossione di affitti o sulle rendite catastali sulle seconde case sfitte e i tributi versati sulle compravendite di immobili. Trattandosi di entrate oggi dello Stato, il loro passaggio ai Comuni comporterà necessariamente trasferimenti perequativi tra giurisdizioni. Quindi non ci sarà quel legame diretto tra imposte e servizi locali, premessa di un federalismo responsabile. Preoccupa, inoltre, l’effetto distributivo di questa scelta. Oggi questi redditi vengono tassati con l’Irpef, quindi si tratta di un prelievo che cresce più che proporzionalmente all’aumentare del reddito. Una volta trasferita ai Comuni la titolarità delle entrate, i redditi da affitti percepiti verranno tassati con una imposta proporzionale, a cedolare secca, con la conseguente riduzione delle imposte per chi ha redditi più alti. Si prospetta perciò, più che un raddrizzamento del federalismo storto, un nuovo trasferimento dai ceti medi ai ricchi. Nella relazione si sostiene che questi effetti distributivi indesiderabili verranno compensati dal recupero di base impositiva perché i Comuni avranno maggiori incentivi ad accertare l’evasione e a rivedere i valori catastali. Ma come si legge dalla Relazione Tecnica alla manovra finanziaria, sin qui il declamato coinvolgimento dei Comuni nella lotta all’evasione ha portato nel 2009 a maggiori accertamenti di imposte per soli 6 milioni di euro e a maggiori risorse riscosse per 450mila euro, una somma insufficiente a pagare lo stipendio ad un alto dirigente del Tesoro. Tra l’altro non si vede perché gli incentivi al contrasto dell’evasione dovrebbero diventare più forti passando dall’Ici alla nuova imposta proporzionale, che magari in futuro potrà essere scippata ai Comuni da un Governo desideroso di far cassa.

Come tenere sotto controllo la spesa locale?
Il problema più pressante in questa fase della crisi è comunque quello di tenere sotto controllo la spesa locale, impedendo che i tagli a Regioni e Comuni previsti dalla manovra finanziaria finiscano per far aumentare ulteriormente il debito delle amministrazioni locali. Su questo aspetto la relazione è irresponsabilmente silente. Esistono da tempo vincoli sui saldi di bilancio, contemplati sia nel Patto di Stabilità Interno che nel Patto per la Salute (destinato a contenere la crescita della spesa sanitaria), ma questi vincoli vengono troppe volte disattesi. Chi oggi vuole rilanciare il federalismo ha perciò il dovere di proporre misure che rafforzino le sanzioni nei confronti delle amministrazioni locali che non rispettano i vincoli. Queste sanzioni sono state indebolite permettendo ai Governatori delle Regioni commissariate di essere essi stessi i commissari delle loro Regioni, abolendo cosi il costo politico di una gestione irresponsabile della finanza locale. Bisognerebbe, invece, avere commissari governativi ad acta per le regioni in deficit che ricorrono al “prestito” statale, esautorando di fatto i Governatori. Di più, si potrebbero prevedere altre sanzioni come, ad esempio, il taglio del finanziamento ai partiti della maggioranza locale, sotto la cui reggenza si è consumato lo sforamento.

Le Province
Un primo passo importante nel contenere la spesa delle amministrazioni decentrate e le duplicazioni di funzioni, consiste nell’abolire le Province. Documenti di questo tipo sono ideali per lanciare il cuore oltre l’ostacolo, le resistenze che hanno portato al fallimento di quel pur timido tentativo di ridurre il numero di amministrazioni provinciali compiuto in occasione del varo della Finanziaria. Come si vede dalla tabella pubblicata, l’abolizione delle Province porterebbe a risparmi strutturali dell’ordine di quasi 3 miliardi. Si noti poi che in alcune Regioni, come la Sicilia, i costi del personale delle Province arrivano quasi al 50% delle spese correnti. Come dire che le province in queste regioni servono soprattutto per dare lavoro ai loro dipendenti. Questi enti non hanno alcuna ragione d’essere nel federalismo fiscale.

da www.repubblica.it