È forse più di un segnale di nervosismo quello che ha spinto il presidente della Conferenza dei Rettori Enrico Decleva a predire che il 2011 sarà l’anno del collasso dell’università italiana. Il suo è stato un esorcismo per spingere il ministro dell’economia Tremonti ad esprimersi sulle modalità che vorrà scegliere per ripianare il prossimo taglio del 14,7 per cento sul fondo ordinario di finanziamento (Ffo) degli atenei.
Per evitare il disastro il rappresentante dei rettori italiani auspica un’altra meraviglia fiscale come quella con cui quest’anno Tremonti ha detto di avere risolto il problema. Sui 678 milioni di tagli previsti ne ha ripianati 400 con lo scudo fiscale. Quindi, una perdita netta di «soli» 200 milioni. Più che di una meraviglia, si dovrebbe parlare di un rammendo dell’ultimo minuto ad una ferita che sta andando in cancrena. Ma da quando Tremonti cavalca l’imperativo del taglio degli «enti inutili», in particolare quelli che si occupano di cultura conoscenza e formazione, queste invocazioni al suo buon senso marginale, ma in fondo ancora resistente, sembrano talvolta andare a buon fine.
La manovra finanziaria ideata dalla sfinge che presiede via XX settembre vorrebbe rassicurare gli spiriti più inquieti. I tagli subiranno una dilazione al 2015 e saranno ridimensionati a 860 milioni di euro dagli iniziali 1,5 miliardi. Ma se sono questi gli esiti dell’esorcismo che avrebbe dovuto risvegliare una reminiscenza keynesiana nel più convinto profeta della riduzione del «pubblico» che ci sia in Europa, sarebbe allora meglio indirizzare i propri sforzi in direzione di una seduta spiritica.
Il muro di gomma eretto dal novello avatar del verbo tedesco sul rigore di bilancio ha aperto il nuovo fronte della guerra all’intelligenza. Il taglio agli stipendi di tutti i docenti senza recupero Istat dopo il 2013, contrariamente a quanto accadrà nel resto del pubblico impiego. I dati li abbiamo già forniti un mese fa e oggi li ritroviamo su tutti i quotidiani italiani, anche loro increduli davanti ad un simile progetto punitivo. I ricercatori perderanno il 27,6 per cento dello stipendio; un ordinario il 18,9 per cento. Una paurosa cura dimagrante indirettamente proporzionale alle responsabilità che ricoprono nella scala gerarchica. I 25 mila ricercatori saranno trattati peggio dei 17 mila ordinari.
In queste ore qualcuno prega – chissà quanto efficacemente – che gli emendamenti parlamentari ammorbidiscano la proletarizzazione del ceto medio che insegna nelle università in direzione di un impoverimento più dignitoso. In questi casi si dovrebbe evitare di esagerare, ma qualcosa di simile nella storia del neoliberismo si è vista solo nel Cile dopo il golpe di Pinochet, quando alla categoria dei docenti universitari venne riservato lo stesso trattamento. Segnali d’allarme rosso che sono stati raccolti da tutte le sigle dei sindacati e delle associazioni della docenza che, per la seconda volta in poco più di un mese, hanno invitato gli accademici e gli amministrativi all’occupazione «simbolica» dei rettorati il 1 luglio e ad una settimana di mobilitazione dal 5 al 9 luglio.
Rispetto al mese di maggio, la protesta ha assunto un maggiore radicamento. A Torino, uno dei centri più attivi della mobilitazione dei ricercatori che si asterranno dai carichi didattici non obbligatori a partire dal prossimo autunno. L’approvazione del manifesto degli studi che permette l’iscrizione al prossimo anno accademico è stato rinviato ad Economia e Scienze Politiche, mentre non è stato approvato a Scienze della Formazione. Saranno 500 i corsi a saltare, il 70 per cento dei ricercatori ad astenersi e 282 docenti parteciperanno alla protesta.
I consigli di facoltà in questo inizio estate ribollono. A Firenze, le astensioni dei ricercatori sono al 60 per cento. Il preside della facoltà di Architettura, che ha l’obbligo di presentare l’offerta formativa e far partire l’anno accademico, ha deciso di assegnare d’ufficio più di cento cattedre a docenti esterni senza il loro consenso. E senza bandi. Una situazione inedita che si aggiunge allo scandalo permanente di insegnamenti non retribuiti. È probabile che questa soluzione sarà adottata in molti altri atenei per evitare il peggio. Alla Sapienza di Roma, il rettore Frati è arrivato l’altro ieri a minacciare i docenti di Lettere che, come molti altri a Napoli Cassino e altrove, hanno deciso di non fare gli esami di luglio. Dilaga lo sconcerto e la solidarietà tra gli studenti. Ne riparleremo.
Per la prima volta nel mezzo secolo della sua storia repubblicana l’università corre il rischio di restare aperta in agosto. Un altro colpo che la crisi riserva al paese più sonnolento e demoralizzato d’Europa.
Il Manifesto 30.06.10