La riforma Gelmini rischia di portare al fallimento gli editori scolastici puri. Resisteranno al blocco delle adozioni solo quelli che coprono altri settori del mercato. Sono quattro su circa trecento. Uno, Mondadori scuola, ha già acquisito il controllo di quindici società del settore Che cosa succederebbe se una legge vietasse agli Italiani di cambiare automobile nei prossimi sei anni? La Fiat chiuderebbe. Ebbene, qualcosa di simile sta accadendo all’editoria scolastica. Con un rischio non solo economico ma anche politico e culturale: il controllo, da parte del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, della formazione delle giovani generazioni. Un nuovo, per certi versi più grave e inquietante, conflitto di interessi.
Ma andiamo con ordine. Tra le pieghe del cosiddetto “decreto Gelmini” (quello del ritorno al maestro unico e al voto in condotta) – la cui approvazione è prevista al Senato questa mattina, dopo aver già superato il vaglio della Camera – si annida infatti un provvedimento (l’articolo 5) in base al quale i libri adottati a partire dal prossimo anno scolastico dovranno essere confermati alle elementari per cinque anni, alle medie e alle superiori per sei. Ciò significa che molte case editrici rischiano di fallire (se non si può più produrre, si è costretti a licenziare, e poi a chiudere), con una perdita di posti di lavoro stimata nell’ordine di diverse migliaia. Ma se gli operatori del settore sono preoccupati, lo sono anche i docenti, che nello spostarsi da una scuola all’altra (o da una sezione all’altra all’interno dello stesso istituto) rischiano di non poter scegliere gli strumenti del loro lavoro, vedendo così leso il diritto alla libertà di insegnamento.
Qual è la ratio del provvedimento? L’idea nasce dalla volontà di contenere i costi per le famiglie che hanno figli in età scolare: è noto che quella per i libri di testo è una spesa piuttosto onerosa (più ammontare anche a diverse centinaia di euro). “Il problema per le famiglie esiste”, ci dice Giorgio Palumbo, presidente dell’omonima casa editrice, “ma il decreto Gelmini lo affronta in maniera rozza e demagogica. Questa legge, infatti, produce due effetti negativi: non aiuta le famiglie e mette in ginocchio un intero comparto produttivo, soprattutto gli editori scolastici ‘puri'”.
Ed ecco da dove viene il nuovo possibile “conflitto di interessi”. Il mercato del libro scolastico in Italia è diviso, grosso modo, a metà: da una parte case editrici che producono esclusivamente libri scolastici (Palumbo, Zanichelli, Principato, Sei, La Scuola, ecc.); dall’altra 4 gruppi editoriali che fanno anche, ma non solo, libri scolastici (Pearson, Rcs, Mondadori e De Agostini). A pagare i costi maggiori del provvedimento sarebbero ovviamente gli editori scolastici ‘puri’, cioè quelli che non hanno quelle altre attività (libri di ‘varia’, giornali, attività finanziarie, ecc.) che coprono le spalle ai quattro gruppi più grossi. Lo scenario che si proietta è dunque quello della fine dell’editoria scolastica pura, a vantaggio delle grandi concentrazioni editoriali, che finirebbero per accaparrarsi tutto il mercato. Con un grosso danno per il pluralismo delle idee, elemento così importante a scuola.
Ciò forse non spiacerebbe più di tanto a quei politici di destra, che, come fece nel Duemila l’allora presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, non perdono occasione per denunciare la presunta ‘faziosità’ (di sinistra) di certi manuali, soprattutto quelli di storia. Storace allora ventilava l’istituzione di apposite commissioni di esperti: una sorta di censura di stato. Un’idea cara alla destra, quella del controllo dei contenuti dei programmi: magari per rileggere in una luce più positiva il ventennio fascista o insistere un po’ di più sui crimini dello stalinismo. Allora, in verità, l’idea di censurare i manuali era stata criticata anche da alcuni esponenti più moderati del centro-destra: la proposta rischiava di sapere un po’ di “libro unico”, quello voluto, ai suoi tempi, da Mussolini per le scuole elementari. Ora, però, lo stesso obiettivo, cioè quello di una maggiore conformità a una certa linea politica, si potrebbe raggiungere, più semplicemente, con meno editori, fedeli e controllabili. Dunque ben venga la formazione di pochi grandi gruppi.
Cosa che, di fatto, in parte è già avvenuta negli ultimi anni. Ad esempio in Mondadori Education, che fa capo alle aziende di famiglia del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, confluiscono una quindicina di marchi (tra gli altri, Einaudi Scuola, Signorelli, Electa, Le Monnier, Minerva, Poseidonia), alcuni dei quali acquisiti di recente. Si capisce dunque su cose si fonda il timore di un nuovo conflitto di interessi: se anche il vantaggio per le aziende del Cavaliere non è la molla prima del provvedimento Gelmini, ne sarebbe comunque una diretta conseguenza. Tra l’altro c’è chi ha criticato, da parte dell’Aie (l’associazione italiana degli editori), lo scarso impegno a contrastare questa prospettiva: a parte una blanda critica di rito, non sarebbero state messe in atto adeguate iniziative di mobilitazione. Come mai una linea tanto soft? Qualcuno ci fa notare che il presidente del ‘Gruppo editoria scolastica’ dell’Aie è Enrico Greco, amministratore delegato di Mondadori Education: guarda caso proprio il gruppo di Berlusconi.
Su questo articolo del decreto Gelmini, alla Camera il Pd ha dato dura battaglia. L’onorevole Emilia De Biasi si è anche battuta a proposito di un’altra strana indicazione, contenuta, questa, all’articolo 15 della legge n. 133 del 6 agosto 2008, in base al quale, a far data dall’anno scolastico 2011-2012, i docenti potranno adottare soltanto libri (citiamo testualmente) “utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista”. Il tutto sempre con la lodevole intenzione di far risparmiare soldi ai genitori. “Ma”, nota Gianni Cicognani, direttore commerciale della Principato, “non si tiene conto che meno del 40% delle famiglie possiede un computer e ancora meno sono quelle dotate di connessione a banda larga. Tra l’altro, stampare centinaia di pagine con illustrazioni, farle rilegare e pagare i diritti d’autore alla fine costa probabilmente di più che comprare il libro tradizionale”.
C’è poi un aspetto culturale e pedagogico da non sottovalutare. “Ci si continua a lamentare che in Italia si legge poco e che c’è una scarsa affezione al libro”, rileva l’onorevole De Biasi, “e si vanno a eliminare quelli che in molte case sono gli unici libri presenti, i manuali scolastici. Noi del Pd abbiamo avanzato una proposta alternativa, la possibilità, per le famiglie italiane, di detrarre le spese per l’acquisto dei libri di testo dalla dichiarazione dei redditi, ma il governo ci ha detto di no. Questo governo, inoltre, ha tagliato drasticamente i fondi al Centro nazionale per i libro e ora giunge questa norma che anch’essa attacca la lettura, va contro il libro e contro la cultura”. All’onorevole De Biasi fa eco Giuliano Vigini, uno dei massimi esperti di editoria, nonché docente di Sociologia dell’editoria contemporanea all’Università Cattolica di Milano: “L’oggetto-libro cartaceo possiede una valenza educativa che altri strumenti non possono vantare. L’idea di poter trovare le stesse informazioni su internet è un po’ un’illusione. È vero che internet è gratuito o comunque costa meno dei libri, ma si tratta di un sapere frammentario e non sempre adeguatamente elaborato. E poi, diciamoci la verità, 6 anni per materie come la scienza o la tecnica sono un lasso di tempo enorme, in cui le conoscenze cambiano profondamente. Tenere lo stesso libro per un tempo così lungo potrà forse andare bene al liceo classico, ma certo non negli istituti tecnici o professionali, che peraltro sono frequentati dalla maggioranza degli studenti italiani”.
Ma tutto questo importa qualcosa a Berlusconi? Sembra piuttosto che l’unico risultato che stia a cuore al governo sia l’incremento di 4 punti percentuali nell’apprezzamento che – secondo i sondaggi – gli avrebbe fatto guadagnare l’annuncio di questo futuro risparmio sui libri di scuola.
L’Unità 29.10.08
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