Un filo rosso lega l’offensiva del Governo sull’art. 41 della nostra Costituzione, la soluzione cercata dalla Fiat per Pomigliano e il carattere oggi dominante della politica economica europea. È il filo dipanato dalle destre europee, più o meno brutalmente a seconda delle varianti nazionali, della regressione della democrazia all’insegna del principio «più crescita, più lavoro, meno diritti». È un filo teso per segnare una frattura culturale e storica prima che politica: da una parte, l’economia sociale di mercato ed il welfare universalistico, cardini della cittadinanza democratica; dall’altra, l’assetto mercantilista a scala continentale perseguito dalle leadership e dall’opinione pubblica tedesche. Da una parte, il residuo inservibile della seconda metà del ‘900 europeo; dall’altra, l’amaro, ma necessario, calice della modernità dolorosa imposta ai lavoratori e alle lavoratrici dalla globalizzazione. Da una parte, «i conservatori», nostalgici di un improponibile patto tra capitale e lavoro quale condizione fondamentale della cittadinanza democratica; dall’altra, «i moderni», rassegnati o entusiasti a seconda delle classi sociali rappresentate.
Su Pomigliano, Luciano Gallino chiede un atto di saggezza a Marchionne, mentre per i lavoratori Eugenio Scalfari invoca l’intervento fiscale riparatore dei guasti redistributivi del mercato. Purtroppo, non sono soluzioni praticabili. Nel mercato globale, l’operaio di Pomigliano, oggi, deve scegliere tra lavoro e diritti. Super-Marchionne sceglie, invece, dove portare i capitali dei suoi azionisti, poco sensibili alla generosità, ma veloci a trovare condizioni del lavoro a loro sempre più favorevoli, uno shopping globale del lavoro. Altrettanto veloci sarebbero i percettori di redditi di medio-grande impresa o da capitale finanziario, cosicché il condivisibile intento redistributivo proposto dal fondatore di Repubblica peserebbe soltanto sui redditi da lavoro e sui capitali immobiliari e, oltre ad iniquità, genererebbe modeste risorse da redistribuire.
Allora non c’è soluzione? O lavoro o diritti? No, la soluzione c’è: ricostruire, a scala globale, le condizioni per il patto tra capitale e lavoro. È molto difficile. Ma le forze politiche e sindacali riformiste hanno uno straordinario asset economico da poter giocare: il motore dell’economia capitalistica non gira senza una decente distribuzione del reddito, senza condizioni dignitose di lavoro per le classi medie. È il punto che il senatore Obama, sulle orme culturali del New Deal di Roosevelt, ha posto al centro della sua campagna elettorale e della sua iniziativa da Presidente. È il punto affrontato dal Governo cinese nei suoi interventi a sostegno delle condizioni di reddito e diritti degli operai del Guangdong. È il punto che timidamente si affaccia nel dibattito delle forze riformiste europee sia politiche che sindacali.
Sul piano della battaglia delle idee, è il punto che i liberali pragmatici, come Keynes e Beveridge, hanno portato nell’agenda della politica a cavallo della II Guerra Mondiale. É il punto di attacco della «Caritas in veritate» all’individualismo metodologico. È il punto che oggi pongono autorevoli economisti, non solo neo-classici eccentrici o keynesiani come Stiglitz, Krugman, Fitoussi e Skidelsky, ma anche ortodossi: oltre al Financial Times, da ultimo, Raghuram Rajan, professore di finanza all’università di Chicago, ex-capo economista del Fondo Monetario Internazionale, in un saggio appena pubblicato (“Fault lines”) individua quale causa prima della crisi in corso e principale ostacolo all’exit strategy la regressione della distribuzione del reddito e delle condizioni del lavoro delle classi medie.
Insomma, per uscire dalla morsa di Pomigliano, per riformare e rilanciare il welfare della cittadinanza democratica, per ricostruire le condizioni del primato della politica sull’economia, è necessaria una rinascita intellettuale ed un’offensiva politica sovranazionale. Per i riformisti europei, vuol dire rilanciare l’Europa politica, federalista, per la crescita ed il lavoro.
L’Unità 24.06.10