lavoro, memoria

"Pomigliano d’Arco, la storica anomalia di una fabbrica", di Rinaldo Gianola

La fabbrica Giovanni Battista Vico di Pomigliano d’Arco occupa 5193 dipendenti diretti (4720 operai e 473 impiegati), dal 2003 a oggi sono usciti oltre 2500 lavoratori. Lo stabilimento Fiat, con l’indotto, vale il 20% del pil della Regione Campania dove la disoccupazione giovanile supera il 50%. Metà dei comuni del napoletano, secondo il prefetto Alessandro Pansa, è infiltrato o minacciato dalla camorra. Davanti a questi numeri e fatti i lavoratori e i cittadini di Pomigliano dovrebbero consegnarsi a Sergio Marchionne, iscriversi a Solidarnosc e iniziare a studiare il modello polacco della Fiat, quello della fabbrica di Tychy dove i 5800 dipendenti hanno prodotto 600mila auto nel 2009, circa lo stesso numero di auto uscite dai quattro impianti italiani. Se le cose stanno come dice la Fiat, se larghissima parte del mondo politico e sindacale accettano le condizioni imposte dal Lingotto per avviare la produzione della Nuova Panda, allora il referendum di oggi dovrebbe essere una pura formalità. Vinceranno i “sì”, Marchionne potrà trionfare anche a Pomigliano. Si lamenteranno solo quelli della Fiom, qualche costituzionalista e Sergio Cofferati che quando faceva il sindacalista era considerato un “destro”. Ma, probabilmente, il caso Pomigliano ci riserva ancora qualche sorpresa. La Fiat, nonostante il plateale consenso raccolto nella politica e nel sindacato, non ha ancora sciolto la riserva sull’investimento di 700 milioni a Pomigliano. Forse non basterà una vittoria del “sì”, forse non sarà sufficiente nemmeno un plebiscito al documento (non definiamolo un accordo, questo prevederebbe una trattativa che non c’è stata) perchè Marchionne ha bisogno di vincere su tutto il fronte,ha la necessità anche di portare a casa la firma della Fiom che, pur essendo il sindacato più piccolo a Pomigliano, mantiene una posizione netta e chiara di opposizione. Mentre i lavoratori si avviano al voto compaiono altri piani della Fiat, compresa la creazione di una nuova società che assumerebbe i dipendenti di Pomigliano a condizione di sottoscrivere tutte le norme capestro, comprese le deroghe contrattuali e costituzionali. È la dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che su Pomigliano non si gioca solo un importante investimento industriale ma soprattutto la tenuta del sistema dei diritti e delle garanzie per il mondo del lavoro. Se passa il modello polacco, poi si aprirà una voragine: perchè mai non si dovrebbe concedere a un’altra impresa quello che questa volta è stato concesso alla Fiat? La storica anomalia di Pomigliano apre dunque una nuova stagione e si misura davanti al caso Fiat e al giudizio espresso da giornali, economisti, politici di vari orientamenti. Nelle cronache e nei commenti di questi giorni riemerge un pregiudizio antimeridionale che, con questi toni, non si sentiva da tempo, se non nella rozza propaganda leghista. Ritorna la condanna di quella fabbrica pagata dalle Partecipazioni statali, inventata dall’Alfa Romeo e che, poi, sarebbe stata “salvata” dalla Fiat di Agnelli e Romiti. Pomigliano è “assenteista” e “poco produttiva”. Secondo la Repubblica, giornale che si batte per la moralizzazione della vita pubblica, Pomigliano ha bisogno di una “rieducazione”. E perchè nonchiedere ai dipendenti una pubblica autocritica, l’ammissione delle proprie “colpe” come in un processo stalinista? Il Sole-24 Ore, diretto dall’ex compagno (se si può ancora dire…) del Manifesto Gianni Riotta, ha invece pubblicato una tabella per simulare quanto sarà bella la vita degli operai con i diciotto turni. Il Corriere della Sera raccoglie il pensiero dell’ex presidente dell’Iri Romano Prodi che conferma l’inevitabilità del passaggio dell’Alfa Romeo alla Fiat «perchè la sua offerta era la migliore ». Si tratta dello stesso Prodi che nell’autunno 2002 riconobbe come «l’opzione statunitense, quella della Ford, avrebbe rafforzato l’industria nazionale»? Il tempo passa, ma gli argomenti, le accuse, le denunce sono sempre le stesse. Sembra di risentire gli slogan delMovimento Meridionalista Italiano e dell’Organizzazione Cittadini Indipendenti, gruppi di opinione torinesi pagati dalla Fiat, che negli anni Settanta all’epoca della nascita di Pomigliano inveivano contro l’investimento pubblico al Sud che avrebbe danneggiato gli operai meridionali saliti al Nord a consumare la vita alle catene di montaggio di Rivalta e Mirafiori. Ma, probabilmente, questo è il segno della modernità del paese: assumiamo acriticamente gli interessi e i valori dell’impresa trascurando tutto il resto. Però i lavoratori di Pomigliano non meritano questo trattamento. Se il referendum darà l’esito sperato, se sarà un plebiscito per l’offerta della Fiat, se Marchionne concederà la produzione della Nuova Panda, allora bisognerà valutare pienamente la portata industriale, l’applicazione effettiva del progetto di Torino. La Fiat ha presentato 7 piani industriali e strategici negli ultimi dieci anni, non sempre gli obiettivi sono stati raggiunti. I problemi di assenteismo e produttività di Pomigliano non possono più essere scaricati sul peccato originale, statale, dell’ impianto: la Fiat ha la responsabilità della fabbrica da 24 anni. è passata nelle mani di manager come Romiti, Garuzzo, Cantarella, Fresco, Morchio e oggi Marchionne. Cosa hanno combinato? In questi anni i lavoratori di Pomigliano hanno sperimentato tutto: la vecchia catena di montaggio taylorista, poi i “gruppi di produzione”, quindi nell’87 il ritorno alla postazione fissa con l’introduzione del Tmc (Tempo movimenti collegati) per saturare al 100%la capacità produttiva,unsistema ulteriormente affinato con il Tmc2 e Tmc3 che aumentavano i ritmi nelle primissime ore di impiego dell’operaio per sfruttarne la freschezza. Hanno vissuto la svolta di Marentino e la qualità totale di Romiti, la flessibilità fornita dai contratti formazione lavoro e da tutte le forme di precariato. Hanno sperimentato il miracoloso Wcm.Ora aspettano il lavoro e anche un po’ di rispetto.

Ps. Mentre trionfa la melassa consociativa su quanto è bravo e buono Marchionne, la Fiat chiude l’Alfa di Arese. Era la più grande fabbrica di Milano. Qualcuno potrebbe protestare, almeno un po’.

L’Unità 22.06.10

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