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"Viaggio tra le macerie de L'Aquila", di Michele Brambilla

Martedì prossimo giornalisti inviati da tutta Italia attraverseranno corso Vittorio Emanuele – cuore della città, tradizionale «struscio» degli aquilani – accompagnati dal sindaco Massimo Cialente. Il corso è stato appena riaperto e la notizia è stata accolta come un segno di resurrezione. Ma quel che vedranno gli inviati sarà uno spettacolo spettrale. Le transenne non ci sono più, è vero, e nel corso si può passeggiare. Ma nessun palazzo è ancora agibile, e gli ormai antichi luoghi di affari, di ritrovo, di ristoro e di compere degli aquilani sono ancora tutti morti. All’appello che proviamo a immaginare camminando su per il corso, da piazza Duomo alla Fontana Luminosa di piazza Battaglione Alpini, nessuno risponde presente. Hotel Duomo: chiuso. Palazzo Betti, sede dell’Unicredit: chiuso. Bar del Vecchio: chiuso. Oreficeria Cavallo: chiusa. Caffè Europa: chiuso. Cassa di Risparmio: chiusa. Camera di commercio: chiusa. Ristorante il Guastatore: chiuso. Outlet Sista: chiuso. Banca di credito cooperativo di Roma: chiusa. Banca dell’Adriatico: chiusa. Benetton: chiuso. Bar del Corso: chiuso. Gran Caffè Eden: chiuso. Manzi uomo: chiuso. Art Cafè: chiuso. Coin: chiuso. Così come sono chiusi Yamamay, le profumerie Limoni, l’Antica Pizzeria del Corso, il negozio Alcott, la parrucchiera Carla, la trattoria da Enrichetta. Tutto chiuso, tutto avvolto da ponteggi, oppure puntellato o transennato. Il cartello della gelateria Florida, che annuncia di aver riaperto in piazza Duomo, sembra un fiore che spunta in un day after nucleare.

L’Aquila è così, è tutta così purtroppo, e chi non c’è stato non può immaginare. Chi non vede com’è ora la città pensa che la vita sia in qualche modo ripartita. Sa che sono state costruite a tempo di record nuove case per quattordicimila persone, ed è vero; sa che gli sfollati – erano ben 67 mila – sono stati tutti sistemati meglio di loro compagni di sventura di precedenti terremoti, ed è vero anche questo. L’emergenza è stata affrontata bene. Ma il rischio è che ora ci si dimentichi che dopo l’emergenza deve arrivare la ricostruzione; il rischio è che si pensi che l’Aquila si sta già risollevando. E invece qui c’è un centro storico – grande come quello di Milano – che è puro deserto (le nuove case provvisorie sono tutte sparpagliate per le frazioni) e c’è un’economia a pezzi.

Per questo il sindaco ha invitato i giornalisti per martedì: «Per raccontare ciò che vedrete – ci ha detto nel suo appello –. Io non dirò nulla, mi limiterò ad accompagnarvi nella visita. Vi chiedo di accendere i riflettori per illuminare la mia città, affinché non rimanga solo l’immagine di Obama, della consegna degli alloggi o delle proteste. Purtroppo l’attenzione del Paese sta scemando. Vi prego di raccontare agli italiani una città che in questo momento non c’è più».

I fronti aperti sono sostanzialmente due. Il primo riguarda i tempi della ricostruzione. Difficile immaginare quanti anni occorranno per ricostruire L’Aquila. A differenza dei terremoti del Friuli e dell’Irpinia, che colpirono paesi di poche migliaia di abitanti, questa volta è venuto giù un capoluogo di Regione, una città con 70.000 abitanti più 28.000 studenti, quinto centro d’arte in Italia. Nessuno pretende miracoli: ma gli aquilani lamentano che qualcosa in più poteva già essere fatto. Ad esempio dicono che una parte degli edifici classificati B e C (danni che comportano un’inagibilità temporanea) poteva già essere riconsegnata. In totale gli sfollati assistiti sono ancora 48 mila.

Il secondo fronte è quello del collasso economico. Se per i dipendenti delle grandi aziende c’è perlomeno la cassa integrazione, la situazione è drammatica per la piccola e media impresa. «Delle 2.300 imprese artigiane della zona – ha detto Luigi Lombardo, presidente della Confartigianato della provincia – più di mille non sono ancora riuscite a ripartire». Su questa crisi è piombata come una nuova scossa di terremoto la mazzata delle tasse. Dal 1° luglio finisce la cosiddetta «sospensiva»: si tornerà a pagare Irpef, Irap, addizionale Irpef, contributi (eccetto gli autonomi con un fatturato inferiore ai 200.000 euro all’anno), Tarsu, Ici, canone Rai e bollo auto. Anche per i mutui è finita la sospensione dei pagamenti. E dal primo gennaio prossimo bisognerà cominciare a restituire, in almeno sessanta rate, tutte le tasse i tributi eccetera non pagati nel 2009 e nei primi sei mesi del 2010. Ha commentato Celso Cioni, direttore della Confcommercio: «Dal 6 aprile 2009 l’esposizione debitoria delle piccole e medie imprese commerciali nei confronti di banche e fornitori è cresciuta del 40 per cento. In un momento delicato come questo il ripristino dei pagamenti delle tasse rischia di abbattersi come una scure sulle attività commerciali».

Contro tutto questo – le tasse, la ricostruzione che non parte, il rischio dell’oblio – mercoledì scorso all’Aquila c’è stata la manifestazione più trasversale della storia, con in corteo sinistra destra sindacati imprenditori preti e perfino poliziotti. Hanno sfilato in ventimila e sulla collina di Roio hanno lasciato una scritta che tutti possono vedere: «SOS».

La Stampa 19.06.10

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