A lui ritrovarsi in dote quel cognome così blasonato – Letta – sarà pur servito a qualcosa. A lei è capitato un cognome anonimo – Serracchiani – al quale tuttavia è riuscita a conferire una certa celebrità. Enrico Letta e Debora Serracchiani sono due quarantenni tra loro diversissimi, non solo nei natali, ma per storia politica, carattere, immagine. Eppure c’è qualcosa che li rende uguali come due gemelli, qualcosa che evoca il destino di una intera generazione: due rifiuti a diventare adulti, pronunciati – riservatamente e in tempi diversi – davanti ai propri amici. Un anno fa Debora viveva un momento di grazia: a “Ballarò” il suo mix – viso dolce e battuta tagliente – aveva bucato il video e alle Europee la Serracchiani aveva ricevuto una valanga di preferenze, più di Bossi in tutto il Nord-est. E lei si era presa sul serio, al punto da raccontarsi così su un libro per la Bur: “Era il primo giorno di primavera quando sono salita sul palco del Pd”, “i delegati, stanchi delle chiacchiere della loro nomenclatura, hanno appalaudito fragorosamente proprio me, “è stato un battito d’ali”, che si è trasformato “in qualcosa di molto più grande”, tale da “generare un’onda d’urto che è riuscita a scuotere dal suo torpore un intero partito”.
Bene, era giunta l’ora di dar seguito a quelle parole alate: la sera del 27 giugno al ristorante «Tre galli» di Torino i quarantenni più combattivi, Paola Concia, Pippo Civati, Sandro Gozi chiedono a Debora di «metterci la faccia», di candidarsi alle Primarie del Pd, di sfidare la nomenclatura. Ma lei li aveva freddati: «Vi ringrazio, ma penso che Franceschini voglia rompere con un vecchio modo di far politica, bisogna profittarne» e «provarci la prossima volta». Un mese più tardi sarebbe uscito il libro di Debora. Titolo: «Il coraggio che manca». Ma lei si riferiva alla nomenclatura. Diverse settimane prima, agli amici che gli chiedevano di candidarsi alla successione di Walter Veltroni, Enrico Letta aveva confidato: «E’ inutile che mi chiedete di andarmi a schiantare. Io non credo alla competizione, in questo partito si va avanti con gli accordi». Serracchiani e Letta, così diversi e così uguali, uniti dalla comune ritrosia a metterci la faccia e le idee. Il destino di una intera generazione di trenta-quarantenni. Ma da 15 anni comandano sempre gli stessi. Basta guardare le foto di gruppo del 1996-98, il biennio del primo governo progressista della storia. Leader e notabili di oggi sono già tutti lì: Bersani, Veltroni e la Finocchiaro erano ministri, D’Alema era segretario del Pds, Letta e Franceschini erano vicesegretari del Ppi. E gli attuali leader progressisti del mondo? Nel 1996 erano dei signor-nessuno. Obama avrebbe dovuto aspettare otto anni prima di diventare senatore dell’Illinois, Zapatero era un anonimo deputato del Psoe, mentre David Miliband (il favorito nella corsa alla leadership laburista inglese) non era ancora entrato nella Camera dei Comuni.
Inseguiti oramai da definizioni caricaturali («fallofori in processione» per il sindaco di Salerno De Luca) e da inviti perentori (il «cacciateli a calci» gli attuali dirigenti di Romano Prodi), i “giovani” del Pd a parole annuiscono: «Il consiglio di Prodi è benvenuto», dice Pippo Civati. Ma il “papà” dell’Ulivo, Arturo Parisi, non ci crede: «Per preservare l’unità dell’azionista di riferimento Ds, il nuovo partito è stato fatto nascere in continuità col passato e sul principio unanimistico. In questo contesto il ricambio è affidato per cooptazione ai vecchi, che riconoscono come affidabili soltanto i giovani-vecchi, individuati per la loro maturità precoce». E dunque i trenta-quarantenni, anche brillanti e preparati, si trovano ad utilizzare tre diversi tipi di ascensore. C’è chi preferisce stare sempre in maggioranza. Il segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina, 31 anni, bergamasco, era veltroniano sotto Veltroni, è diventato bersaniano con Bersani. Andrea Orlando, 41 anni, di La Spezia, era il portovoce del Pd di Veltroni, ma ora è il responsabile (bersaniano) della Giustizia. Poi ci sono quelli che crescono all’ombra di un leader e non si spostano mai, come Matteo Orfini, 35 anni, romano, braccio destro di D’Alema. Si può diventare politici di razza, restando nella segreteria di un leader? «Lavorare per due anni a palazzo Chigi è stato per me enormemente formativo e lo stesso vale per chi lavora negli enti locali. Prodi? Un po’ superficiale. Diceva Gramsci che non si può accreditare sé stessi, negando il valore della generazione precedente e d’altra parte non è rinnovamento, ma subalternità dire quel che vogliono i giornali e tv». Ma il terzo ascensore è proprio la tv, andarci e parlare bene, come fanno Civati e la Serracchiani. Ma d’altra parte, in un partito poco strutturato come il Pd, chi trovasse la forza di dar calci, non rischierebbe di trovare il vuoto? In fondo l’ultima segreteria che ha prodotto giovani tosti non era quella del Pci finale? «E’ così – sostiene un ex come Emanuele Macaluso – Natta volle D’Alema, Occhetto, Fassino, Bassolino, Turco, Mussi. Furono poi loro a mettere in un canto Natta malato e a mettersi loro…».
La Stampa 17.06.10