E’ un trattamento senza precedenti, quello che la Commissione ministeriale ha riservato a Gaspare Spatuzza, negandogli l’ammissione al programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Un trattamento oggettivamente iniquo, visto che la decisione nega all’aspirante collaboratore i benefici di legge dopo, però, che un’altra istituzione – la magistratura – ha pienamente utilizzato il «contributo» proveniente dal teste.
Vista così, la scelta ministeriale non può che esser considerata nell’ottica di una puntigliosa ripicca contro chi, nel corso della sua collaborazione, si è trovato a tirare in ballo nomi importanti della compagine governativa. A maggior ragione se, come sembra, la decisione di «mollare» Spatuzza è stata presa a maggioranza e col voto contrario dei magistrati che fanno parte della Commissione.
D’altra parte, Alfredo Mantovano, il sottosegretario che presiede l’organismo del Viminale addetto ai programmi di protezione, lo aveva pure anticipato con dichiarazioni pubbliche che nella collaborazione di Spatuzza c’era un problema legato al rispetto del termine dei 180 giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve esaurire l’elencazione delle notizie che intende offrire agli inquirenti. Un problema superato in sede giudiziaria grazie ad alcune sentenze della Cassazione che rendono accettabili anche le dichiarazioni «tardive» dei pentiti se rese in un ambito che garantisca il contraddittorio fra le parti. Ecco perché sono state accolte, nel processo d’appello che si celebra a Palermo contro Marcello Dell’Utri, condannato per mafia in primo grado, le rivelazioni di Spatuzza riguardanti il presunto coinvolgimento, nelle stragi mafiose del 1993, di Berlusconi e del senatore di Forza Italia. Ma per il governo il problema restava ed è per questo che considerazioni che certificano in qualche modo il «dovere» dei giudici di approfondire gli spunti investigativi di Spatuzza, inducono ad interpretare l’inedita iniziativa ministeriale come una punizione trasversale che non si ferma al pentito in questione – da oggi sovraesposto dal punto di vista della sicurezza -, ma si spinge oltre in una sorta di intimidazione preventiva per chi avesse ancora voglia di collaborare coi giudici sul terreno spinoso di mafia e politica.
E’ stata sempre questa, la «croce» dei pentiti. Finché hanno raccontato la macelleria di Cosa nostra sono stati considerati utili e, in certi casi, valorizzati e premiati anche in modo esagerato. Quando il discorso si è spostato sul «salotto buono» della mafia dalle buone frequentazioni le cose sono cambiate. Ricordate Tommaso Buscetta? Disse a Falcone che non avrebbe risposto a domande sulle complicità politiche perché non voleva «esser preso per pazzo». Dopo la morte di Falcone si convinse a saltare il fosso: non fu preso per pazzo ma per un bugiardo manovrato dai magistrati comunisti. Stesso percorso per i pentiti Francesco Marino Mannoia (perfetto finché non entrò nel processo Andreotti), Di Carlo, Cangemi e tanti altri. Fino a Massimo Ciancimino, che pentito non è ma di politica parla pure lui. Ieri ha ricevuto l’ennesima lettera di minacce: ad alcuni non piace ciò che ha raccontato e continua a raccontare ai magistrati. Lo accusano di inseguire un indefinito tornaconto, senza che nessuno dei politicanti intervenuti nel dibattito sia stato in grado di spiegare compiutamente i vantaggi che da questa collaborazione gli sarebbero piovuti addosso.
La Stampa 16.06.10