Ogni volta che qualche leghista maltratta l’inno mi torna alla memoria un episodio della primissima infanzia. Ero sugli spalti dello Stadio per un meeting di atletica, quando la banda attaccò una marcetta spiritosa. Gli spettatori si alzarono in piedi: anche mio padre, che subito imitai. Ma un ragazzino più grande di me rimase tranquillamente seduto. «E tu perché non ti alzi?», gli chiese mio padre. «C’ho un cicles attaccato al sedere». Non disse proprio «sedere». Ma di sicuro disse «cicles», la gomma da masticare. Mio padre, ex partigiano, serrò gli occhi a fessura: «E’ un bel problema, ma te lo risolvo io». Prese il bulletto per le ascelle e lo sollevò. «C’è gente che è morta perché tu potessi ascoltare in pace questo inno. Porta un po’ di rispetto, cretino!». Intorno a lui si levò un applauso caldo e solidale, che sferzò l’amor proprio del ragazzo più ancora del fervorino.
Non so se sarei capace di comportarmi come mio padre. Invece degli applausi, avrei paura di beccarmi una coltellata o un’accusa di molestie ai minori. Ma quel giorno compresi che facevo parte di una comunità e che chiunque l’avesse sfregiata con un comportamento irriguardoso avrebbe finito per provocare in me una reazione eguale e contraria. Così, pur essendo uno di quei tipici italiani che non vibrano per la parola Patria e baratterebbe l’elmo di Scipio con un inno solenne come la Marsigliese, grazie agli sforzi iconoclasti della Lega mi ritrovo da qualche tempo a indossare con orgoglio cravatte tricolori. E ieri sera, mentre De Rossi cantava in romanesco «che schiava de Romaaaaa…» poco è mancato che mi venissero i lucciconi.
La Stampa 15.06.10