cultura

"Grandi, medi e piccoli insieme farebbero grande l’editoria", di Domenico Procacci

Un maggior numero di attori e una diversa distribuzione delle forze darebbe più vivacità, agilità e una più ampia prospettiva a un mercato che «nega» il rischio e penalizza la sperimentazione. Un merito innegabile del Premio Strega è quello di accendere ogni anno, per qualche mese, una luce, un interesse che a partire dal premio stesso si allarga all’intero mondo dell’editoria italiana. È vero che sempre più «interesse» in termini giornalistici è sinonimo di polemica o peggio di gossip, ma nell’intervista di venerdì su queste pagine a Tullio DeMauro credo ci siano elementi per una riflessione più larga sullo stato delle cose.
Ritengo che lo Strega sia storicamente espressione e quindi riflesso della nostra editoria.Mi sembra anche che i correttivi adottati negli ultimi tempi dalla Fondazione Bellonci vadano nella direzione giusta,ma è della situazione più in generale dell’editoria che credo si debba discutere.
L’analisi che ne fa De Mauro, con la quale concordo in pieno, offre spunti seri. Nell’editoria italiana, un mondo sostanzialmente immobile, qualche raro movimento avviene con lentezza, gli equilibri sono quelli e tali restano nel tempo.
Se questi equilibri non si riproponessero nello Strega, ammettiamolo, sarebbe strano. Sarebbe anche bello, oltre che strano, ma bisogna lavorarci e, sarò un’ottimista, le parole di De Mauro mi fanno ben sperare. La responsabilità di questa impressionante staticità, a mio avviso, è di tutti. Forse, insieme alle eccezioni che ovviamente e per fortuna ci sono, gli unici a non essere imputabili di alcunchè sono proprio i grandi editori. Fanno il loro lavoro e non si lamentano. Se però pensiamo che un mercato più vario, meno concentrato sui grandi gruppi e con la presenza maggiore di piccoli e medi editori possa portare vitalità a questo settore, ecco non mi sembra si stia lavorando in quella direzione. A partire dagli autori, che se non hanno la fortuna di iniziare la carriera con un grande editore vedono l’arrivarci come un obiettivo, un processo di crescita logico quasi inevitabile. Essendo personalmente riconosciuto molto più come produttore di cinema che come editore (e a ragione) mi si permetta un parallelo. Dopo aver realizzato i suoi primi film con me Gabriele Muccino è stato avvicinato da Aurelio De Laurentis,un produttore sia allora che oggi
più grande e importante di me. Aurelio (che ha raccontato spesso questa storia) ha proposto a Gabriele di passare a lavorare con lui, Muccino è rimasto, abbiamo fatto L’ultimo Bacio e la mia società è cresciuta. Un esempio più recente: qualunque produttore oggi vorrebbe lavorare con Paolo Sorrentino, lui continua a farlo con i produttori con cui ha iniziato, e la loro sta diventano una delle realtà più interessanti del settore. È facendo un percorso con i propri autori che un editore può acquistare forza e muovere passi all’interno di un sistema, altrimenti ne resta ai margini, come avesse la missione di favorire l’ingresso a chi merita, rimanendo però lì, sulla porta. Anche gli agenti letterari sposano questa logica e non solo per gli scrittori italiani.
Ma è giusto che dopo tanto lavoro su un autore come Raymond Carver, Minimum fax lo perda a favore di un editore più grande? O che noi, Fandango, perdiamo i romanzi di David Foster Wallace e John Cheever? Forse sì, forse guardando solo ai numeri è giusto.Ma non ne sono così sicuro.
Alcuni autori già affermati hanno un proprio pubblico e se lo portano dietro, indipendentemente dall’editore che scelgono. E se l’attenzione di tutti coloro che possono contribuire alla fortuna di un libro si focalizzasse sul libro stesso a prescindere dalla forza del suo editore, forse tutta questa differenza non ci sarebbe. Parlo dei giornali, di chi decide gli spazi e di chi scrive, della critica letteraria, delle librerie, di come vengono esposti i libri, della decisione di dare fiducia a un titolo e tenerlo o renderlo in fretta al suo editore, di quanto sia diventato raro trovare nelle librerie qualcuno che legga e consigli. E parlando ancora di responsabilità anche i piccoli editori
secondo me ne hanno una parte. Anche loro accettano la stessa logica e vedono come un traguardo l’approdo al grande gruppo. Sembra essere quello il punto d’arrivo, il modo di risolvere tanti problemi e anche di monetizzare, come giusto, il lavoro faticoso svolto sino a quel momento. È una strada più che sensata, ma deve poter non essere l’unica possibile. Ho il forte timore, mentre scrivo, che questo mio intervento possa essere letto come un atto di accusa, o una lamentela. Non è affatto così. E per intenderci, non sono qui a teorizzare che «piccolo è bello» o demonizzare i colossi editoriali. I nostri grandi editori hanno al loro interno professionisti di altissimo livello che lavorano con passione autentica.
Quello che dico e che raggiunte certe dimensioni le responsabilità diventano enormi, c’è meno spazio per il rischio, la sperimentazione, a volte la ricerca. Questo resta in carico a chi può permettersi maggiore agilità, ma pochissimo margine di errore.Credo che uno scenario più ampio, più variegato, con un maggior numero di attori e una diversa distribuzione delle forze, darebben all’editoria italiana un respiro più ampio, una diversa vivacità, un maggior dinamismo e più prospettiva. Permetterebbe la creazione (e la visibilità) di più percorsi, che intrecciandosi contribuirebbero a costruire una politica culturale che è, temo, al momento una delle grosse mancanze di questo paese.

L’Unità 13.06.10